la Repubblica, 19 agosto 2018
Il vero scrittore lo vedi dal taccuino
Potrà stupire, ma gli scrittori dell’epoca digitale non affidano gli appunti di viaggio a uno smartphone. Nello zaino, prima di partire per le vacanze, preferiscono mettere un taccuino. Il paradosso è che internet sta rilanciando la scrittura a mano: basta farsi un giro in Rete per imbattersi in tutorial e corsi di calligrafia di ogni tipo (a Milano si terrà all’inizio di ottobre il “Festival delle lettere”, dedicato alla scrittura epistolare). Contro la spersonalizzazione dell’atto creativo, insomma, la ricerca d’identità passa per la riappropriazione della materialità del gesto. “La nostra scrittura dice molto di noi. È personale, individuale. Come il nostro volto e la nostra voce, è unica e ci assomiglia”, scrive Francesca Biasetton, presidente dell’Associazione calligrafica italiana in La bellezza del segno (Laterza).
Sono tanti gli scrittori che continuano a scrivere a penna. Marco Missiroli ama lavorare in un bar milanese vicino alla sua abitazione. «Tengo un diario da quando ho quindici anni. Registro la vita in tempo reale, ora per ora. Sono un grafomane. Uso il classico Moleskine nero. La penna deve essere rigorosamente gel, così il pensiero non s’incaglia, scorre veloce». I quaderni di Missiroli sono istantanee schedate in ordine cronologico: «I diari sono il forziere delle mie emozioni. Mi attraggono le minuzie della quotidianità. Credo siano l’unità di misura della narrativa. A volte però esagero, scrivo cose che non vorrei venissero lette. Allora brucio il taccuino per cancellare le prove».
I taccuini sono l’officina dello scrittore. Quelli di Edoardo Albinati sono attorcigliati di citazioni, schede, disegni, colori. Durante la stesura dello sterminato La scuola cattolica (quasi 1.300 pagine), Albinati ha riempito tre grossi quaderni formato A4 e diciotto tascabili. «La scrittura a mano mi permette di non interrompere il flusso creativo. È più sciolta, più svelta, mette al riparo dalla tentazione di uscire dalla riga per cercare approfondimenti in Rete». Guardandoli da estranei sembra un attraente caos: «Lo so, sono un bordello, ma ho creato un tabellone nel quale attraverso un sistema visivo di tesserine colorate mi oriento».
Se portarsi dietro un quadernone non è agevole, Paolo Cognetti non rinuncia a piccoli taccuini. In autunno uscirà per Einaudi Senza mai arrivare in cima,racconto di un mese sull’Himalaya, tra Nepal e Tibet, con un amico illustratore. «Mi piace scrivere a mano, senza cancellare, evitando ripensamenti. Ci tengo a conservare su carta il diario di lavorazione di una storia, ma è anche una questione estetica: accendere il computer in quota sarebbe fuori luogo». Per l’ultima avventura in Nepal, lo scrittore è partito con i taccuini che gli ha regalato Mauro Corona: «Prediligo quelli piccoli con la copertina morbida». Nei quaderni di Gianrico Carofiglio c’è di tutto, anche disegni: «Citazioni da libri che sto leggendo, frasi captate per strada. Dettagli: una piega di disprezzo in un’espressione, una macchia su un polsino». Quaderni soffici, il cui contenuto viene poi trasferito al computer: «Scrivere su un quaderno mi mette meno ansia e mi aiuta a vincere la pigrizia. Con il computer ho un rapporto meno cordiale».
Dacia Maraini ha un armadio pieno di quaderni: «Ma il passo successivo è riversare tutto al computer. La carta è la creatività, il computer il momento dell’ordine». C’è chi come Donatella Di Pietrantonio scrive dove capita: «In viaggio, anche dietro il biglietto del treno. Nel mio studio dentistico mi è capitato di usare il ricettario medico per fissare un’idea. Ho scritto il primo romanzo, Mia madre è un fiume, a mano. Nel 2011 non sapevo ancora usare il computer». La generazione Zeta si muove diversamente. Rocco Civitarese, esordiente diciottenne per Feltrinelli ( Giaguari invisibi-li), alla carta non ci pensa: «Ci ho provato un paio di volte ma il risultato mi ha deluso. Il computer mi aiuta a mantenere la scrittura più asciutta, a non sbrodolare».
Il taccuino richiama Hemingway o il mitico Moleskine amato da Chatwin. Mark Twain se li faceva disegnare “su misura”. Balzac e Cechov ci annotavano elenchi di cognomi strani, Dostoevskij li riempiva di disegni, come farà anche Peter Handke. All’Harry Ramson Center di Austin, in Texas, sono custoditi i manoscritti degli scrittori contemporanei: Don DeLillo, Norman Mailer, David Foster Wallace. Ci sono anche i blocchi verdi formato A4 con rilegatura a spirale di Ian McEwan. Il metodo dello scrittore inglese è spietato: se gli appunti superano le cinquanta pagine hanno buone possibilità di trasformarsi in un libro, altrimenti si cambia strada. Anzi, taccuino.