la Repubblica, 19 agosto 2018
L’ingegnere imperfetto
Il crollo del Ponte Morandi a Genova pone una domanda ineludibile: possono gli ingegneri sbagliare? Ovviamente la risposta è: sì! Accade, e purtroppo accadrà ancora. Più difficile capire perché. Lo prova a spiegare un ingegnere americano, Henry Petroski, in Gli errori degli ingegneri (Pendagron). Il libro contiene la descrizione di una serie di crolli di ponti e edifici civili, a partire dal celebre ponte di Tacoma Narrows, vicino a Washington, caduto nel 1940, entrato negli annali come esempio di un imprevedibile fallimento costruttivo. Il suo autore, Leon Moisseiff, era un valente progettista, le tecniche utilizzate di alto livello e il piano di lavoro ottimo. Eppure, dopo aver oscillato sotto la forza del vento, i cavi che lo reggevano saltarono lacerando una sezione dell’impalcato e i veicoli che vi passavano caddero 52 metri più sotto. Petroski è interessato non tanto a illustrare perché crollano le strutture costruttive, ma come e perché l’errore si insinua nei loro progetti. Arriva alla conclusione che” il concetto di errore è il fondamento del processo di progetto”. Per lui l’ingegnere perfetto non è colui che si fonda sulla tecnica e sul calcolo esatto, bensì uno che ha un pensiero fisso in testa: l’impossibile può sempre verificarsi. Cita uno strutturalista, Lev Zetlin, che ha detto:” L’immaginazione e la paura sono fra gli strumenti più preziosi di cui un ingegnere dispone per scongiurare la tragedia”.
Dopo aver esaminato innumerevoli fallimenti, Petroski afferma che tutti gli errori sono errori umani, poiché sono gli uomini a dover decidere cosa fare, o cosa non fare, e sono sempre gli uomini a decidere cosa deve essere fatto e sono gli uomini a doverlo fare. In qualunque professione si impara più dagli errori che non dai successi. Dopo aver passato in rassegna ponti che collassano, palazzi che si accartocciano, passerelle che si rompono, Petroski conclude che gli ingegneri – lui compreso – sono riluttanti a vedere i propri sbagli, mentre l’errore è proprio una delle poche cose certe del loro mestiere. Per questo propone che vengano istituiti nelle università corsi di ingegneristica dell’errore, dove si insegnano i grandi sbagli tecnici commessi nel corso della storia della professione.
Tutto semplice allora? Per nulla. Petroski è ben consapevole che la parte più difficile riguarda proprio la progettazione: lì l’errore è davvero difficile da individuare. Se nella fase d’ideazione, nel “pensiero non verbale” del progettista, esiste un errore, sarà molto difficile individuarlo. Man mano che si procede nella realizzazione tecnica del manufatto, il difetto diventa sempre meno evidente: si nasconde agli occhi degli stessi ingegneri. Persino la verifica non basta a evidenziarlo. Propone perciò di rovesciare la logica tradizionale: l’ingegneria delle costruzioni non sarà la scienza per costruire, bensì il metodo attraverso cui prevedere la modalità con cui si manifesterà l’errore. Peter Rice, il maggior ingegnere del XX secolo, colui che ha progettato le vele della Sydney Opera House e le travi che stringono il Beaubourg, le cosiddette gerberette, inventate dal tedesco Gerber, nell’Ottocento per un ponte sul Meno, racconta in un suo libro che alle costruzioni cui lavorava di giorno, continuava a pensarci di notte. Le possibili soluzioni costruttive a volte gli apparivano nel dormiveglia. L’errore era in agguato; lo visitava, come una divinità antica, nel sonno e in veglia. Le opere di Rice sono ancora lì, solide ed eleganti. I grandi ingegneri sono naturalmente degli ossessivi.