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 2018  agosto 19 Domenica calendario

Intervista a Gisela Getty

Gisela Getty è una fotografa, regista, designer e scrittrice. È nata il 3 aprile 1949 a Kassel, in Germania. Con sorella gemella Jutta, è nota come esponente del movimento del ’68. Nel 1973 a Roma Gisela si fidanzò con Paul Getty poche ore prima che fosse rapito. 
Lei e Jutta siete state icone del movimento hippy in Germania, Italia e a Los Angeles. Avete fatto parte del movimento degli Anni 60 e siete state amiche di Bob Dylan e Leonard Cohen. Cosa resta di tutto questo?
«Ancora oggi sento, in sintonia con il movimento degli Anni 60, che la nostra generazione ha avuto una sorta di rivelazione, sperimentando un mondo basato sull’amore e su un profondo senso di interconnessione. Abbiamo potuto dare un’occhiata al giardino dell’Eden, ma non sappiamo se questo abbia cambiato le nostre prospettive».
Il sogno è finito?
«Non per me, ma molti hanno perso la speranza. E molti della mia generazione sono morti».

A causa della droga?
«Sì, ma le droghe sono solo un mezzo, un modo per uccidersi».
Anche lei le ha provate ma è riuscita a uscirne.
«Abbiamo provato le droghe psichedeliche. La mia prima esperienza con l’Lsd fu a Sperlonga, in Italia. Erano i primi Anni 70 ed ero con mia sorella. Fu un’illuminazione, capimmo che la verità è amore e ci sentimmo figli di Dio destinati a portare l’amore nel mondo». 
Era una reazione al fatto che eravate cresciute in Germania subito dopo la guerra e molti negavano l’accaduto?
«Molti nella generazione dei nostri genitori fecero ben di peggio: erano ancora fascisti. E anche un mucchio di politici lo erano, ecco perché la Baader-Meinhof scelse la lotta armata fino alle estreme conseguenze e molti di noi simpatizzarono con loro».
Ma il movimento hippy era pacifista?
«Sì, ma eravamo più influenzati da Kommune 1, che nasceva dal surrealismo e dal dadaismo. Sostenevano da tempo che la vera rivoluzione parte da noi stessi perché Hitler è dentro di noi e il primo passo è assumersi la responsabilità del nostro fascismo interiore».
Eravate molto giovani. Consapevoli di tutto questo?
«Quando eravamo ancora bambine abbiamo cominciato a scoprire cosa avevano fatto i nostri genitori. Abbiamo compreso che non sarebbe mai più dovuta accadere una cosa del genere».
Siete andate in Italia a cercare la libertà?
«Sì, ma prima avevo lasciato la mia città natale, Kassel, dove io e mia sorella avevamo studiato arte e dove avevamo creato un collettivo cinematografico per fare film politici. Ma alla fine anche quello ci sembrava troppo borghese. Così lasciammo la scuola di arte pochi mesi prima degli esami finali e diventammo attiviste politiche. Io andai a Berlino, in fabbrica, avrei dovuto sensibilizzare politicamente la classe operaia, un sogno da studenti».
Poi perché l’Italia?
«Mia sorella e io eravamo in qualche modo influenzate dal professor Bazon Brock che ci aveva spiegato come ci si può inventare come artisti e soprattutto dall’idea della Kommune 1 di portare la rivoluzione dentro se stesse per diventare amorevoli esseri umani. Per questo venimmo in Italia. Era il ’72-’73 e volevamo essere libere. Nello stesso periodo il movimento femminista cominciò a diffondere l’idea che le donne sono vittime degli uomini, e che sono loro a bloccarle. Nella mia esperienza, gli uomini hanno sempre appoggiato la mia ricerca e la mia indipendenza. Credo che nel ’68 fossimo tutti uguali, tutti alla ricerca di qualcosa».
In questa ricerca ha incontrato, in Italia e in California, grandi artisti fra cui suo marito Paul. Com’è andata?
«Io e mia sorella andammo subito a Roma che all’epoca era un crogiolo di appartenenti al movimento degli Anni 60 in arrivo da tutto il mondo. C’erano studenti dell’America Latina in fuga dalla dittatura; espatriati; artisti come Warhol, Morrissey, Glauber Rocha. Persone che abitavano un mondo del tutto nuovo».
Poi rapirono Paul e poco dopo la sua liberazione vi sposaste. La sua vita cambiò?
«Quando io e mia sorella incontrammo Paul lui era molto giovane, aveva rotto con la sua famiglia e il suo ambiente. Viveva con amici in un vecchio seminterrato buio a Trastevere e aveva a che fare con esponenti della malavita; a me sembrava una subcultura che gli permetteva di sfuggire alle aspettative riposte in lui, erede di una grande dinastia. Ma io e Jutta riconoscemmo in lui una natura simile alla nostra e diventammo inseparabili. Fin dal primo giorno sentimmo di appartenere l’uno all’altro, eravamo sempre insieme, dormivamo insieme in un solo letto ed eravamo felici. Da emarginati diventammo un giovane triumvirato, convinti di poter ottenere tutto quello che volevamo».
Poi lui venne rapito.
«Fu una frattura tra il vecchio e il nuovo mondo. Ma significò anche la fine dell’estate dell’amore e dell’idea di creare un nuovo mondo. Dopo questo choc Paul e io ci sposammo. Aspettavo Balthazar, ma a Roma eravamo assediati dai paparazzi. Paul, che aveva subito un terribile trauma, era sempre più dipendente dalle droghe, io no. La famiglia decise di farci trasferire in California. Jutta nel frattempo era andata a Monaco a trovare Rainer Langhans, uno dei cofondatori di Kommune 1. Era uscito di prigione e aveva capito che la vera rivoluzione avviene dentro di noi. Aveva trovato un maestro indiano che lo aveva iniziato e Jutta voleva avere da lui indicazioni per la propria vita. La sua relazione con Mario Schifano era finita e stava cercando nuove prospettive. Paul non parlava mai del rapimento. Vivevamo a Los Angeles, cercando di lasciarci alle spalle quel dolore. E poi erano gli Anni 70 e drogarsi era comune. Lo facevano Dennis Hopper e altri amici cercando di sfuggire alla trappola della normalità».
Cosa le resta di quei tempi?
«Jutta mi portò dei libri del maestro indiano e mi parlò di Rainer. Io avevo trovato un maestro tibetano in Colorado e avevo un biglietto per l’India. Ricevetti una cartolina da Rainer, aveva trascritto un sogno di mia sorella aggiungendo: “Perché l’India? C’è così tanto da fare qui.” Così andai a Monaco e l’incontro con lui fu intenso e pieno di prospettive per il futuro».
Sua sorella Jutta incontrò Bob Dylan?
«Sì, prese l’Lsd con lui a Malibu e Dylan, in quanto ebreo, la portò a confrontarsi con il nazismo. Voleva scoprire cosa avevamo a che fare con quella questione. Fu un’esperienza molto importante per lei perché capì che tutti noi abbiamo interiorizzato Hitler».
Ha conosciuto Leonard Cohen?
«Sì, lo incontrai all’hotel Chateau Marmont dove vivevamo con Paul e divenne il mio migliore amico. Mi portò dal suo insegnante zen e incominciai a studiare. Eravamo molto legati. Poi, da quando ho conosciuto Rainer, sono andata ogni anno a Monaco. Abbiamo capito che tutte le nostre idee sull’Amore dovevano essere realizzate dentro di noi e che dobbiamo rivoluzionare noi stessi e non gli altri. È un processo che non finisce mai ed è un atto politico: io dico che siamo monaci in incognito, che è anche il titolo del mio nuovo libro».
In conclusione possiamo dire che la sua vita è un lungo viaggio in cerca dell’amore?
«Sì, il vero amore. Ovvero il superamento del fascismo interiore. Che io non credo di essere riuscita a superare. Non ho ancora trasceso la mia violenza, sono ancora piena di colpe. È una ricerca che va avanti per tutta la vita».
(Traduzione di Carla Reschia)