La Stampa, 19 agosto 2018
L’autoritratto di Charles Ray
Charles Ray è forse uno dei più grandi scultori contemporanei viventi ma anche uno degli artisti più lenti nel pensare, realizzare e terminare un opera. Lavori iniziati dieci, quindici anni fa possono ancora non essere nemmeno vicini alla conclusione altri addirittura vengono abbandonati o messi in sala d’attesa per molti altri anni.
Ogni dettaglio per Ray è un opera d’arte a sé. Ogni dettaglio può cambiare il destino di un lavoro nel bene e nel male. Definirlo pignolo è riduttivo, ossessivo è offensivo, perfezionista significa banalizzare un processo creativo e mentale che si dipana come una grande matassa di pensieri ed idee a poco a poco, anzi lentissimamente. Il capolavoro di cui mi piace parlare non solo non è mai stato finito ma data la sua assurda incredibile complessità non si può nemmeno dire che sia mai stato iniziato o almeno è rimasto in uno stato sospeso fra l’allucinazione, il sogno e la fantasia.
Di cosa si tratta? Di un autoritratto. Per Charles Ray l’autoritratto è importante non tanto per autocelebrarsi o analizzarsi. ma per il fatto che il suo corpo e la sua identità sono gli strumenti con i quali lui, e tutti noi, sperimentiamo il mondo. Fin dall’inizio della sua carriera Ray ha fatto molti autoritratti. Partendo dal manichino con le sue sembianze ai suoi vestiti per arrivare a quello equestre presentato all’Art Institute di Chicago pochi anni fa, nel corso della sua mostra personale in quell museo che Ray aveva visitato così tante volte bambino ed adolescente. Un autoritratto da giovane consisteva in una serie di foto dell’artista con i capelli lunghi che indossava in ogni immagine vestiti diversi. Il titolo era All my clothes tutti i miei indumenti. Questo lavoro è stato alla base dell’opera non finita di cui adesso vi parlerò. Avevo visitato spesso Charles Ray a Los Angeles. Eravamo diventato amici, dopo un inizio burrascoso alla Biennale di Venezia del 1993. In una delle mie visite nel suo studio in una zona malfamata di Los Angeles Charles Ray mi parlò di questa sua idea di autoritratto fatto attraverso i suoi vestiti. Non quelli, come nella serie di foto, comprati a Wallmart ma indumenti creati da zero dall’artista stesso. Per farmi capire di cosa parlava Ray prese una camicia in tutto e per tutto identica a quella che indossava, di bassa qualità e di prezzo basso che però aveva cucito lui. Non solo cucito aveva prodotto anche da zero la stoffa tessendola a mano su un telaio. Il risultato era sconvolgente, straniante, surreale. Un po’, ma qui non c’era nessun umorismo, come lo stuzzicadenti prodotto da Ugo Tognazzi intagliando il famoso «troncio» assolutamente identico ad uno stuzzicadenti prodotto industrialmente. Charles Ray era Tognazzi intagliatore della Valbrembana ed io ero il Raimondo Vianello della situazione. Ma la storia non finiva qui. Ray mi mostro un’altra infinita varietà di indumenti persino le mutande Cagi, i calzini, le scarpe Clarks, la cintura dei pantaloni ed i jeans stessi che indossava regolarmente. Dove voleva arrivare? L’obbiettivo era di ricreare ogni cosa che lui indossava, comprese le montature degli occhiali e le sue lenti, che stava smerigliando da zero li nello studio e persino chiaramente la cerniera lampo di pantaloni e giubbotto e i bottoni. Una volta portata a termine questa impresa da Sisifo avrebbe girato un film in 35mm che avrebbe poi proiettato regolarmente nei cinema.
Mentre mi raccontava tutto questo, io lo guardavo ed ascoltavo fra l’affascinato ed il preoccupato. Era chiaro che il mio amico aveva qualche rotella fuori posto ma al tempo stesso capivo anche di trovarmi davanti un genio ed un grande artista: affrontava l’arte per quello che dovrebbe sempre essere, uno strumento per scoprire i misteri più profondi della nostra identità. Ma mentre pensavo al mistero profondo dell’arte e della nostra identità non potevo non fare a meno di rimanere ipnotizzato dalla maglietta che spuntava fuori dalla camicia di Charles Ray o dai lacci delle scarpe, pensando fra me e me «avrà fatto lui anche quelli?». Ognuno di noi è anche rappresentato da quello che indossa e Charles Ray voleva ricostruire questo tipo di rappresentazione, trasformando un prodotto industrial in uno artigianale, come Tognazzi, senza però che il prodotto artigianale diventasse diverso o superiore a quello di bassa qualità comprato nel grande magazzino. Perché se fosse diventato diverso o addirittura migliore, tutta l’idea dell’autoritratto sarebbe diventata artificiale.
A questo punto mi chiederete se Charles Ray ha mai portato a termine questo film autoritratto? Chiaramente no. Ma non pensate che si sia fermato troppo lontano dalla meta. Cosa lo ha bloccato ? Lo ha bloccato il meccanismo del suo orologio. Il gallerista italiano che al tempo lavorava con Charles Ray, Claudio Guenzani, gli presentò un maestro orologiaio svizzero al quale Ray espresso il desiderio di voler costruirsi un orologio. L’orologiaio pensò che l’artista volesse imparare a mettere assieme gli ingranaggi di un orologio, arte ed impresa già di per se non facilissima. Ma quando capì esterrefatto che Charles Ray voleva costruire da zero ogni ingranaggio, lo guardò come se stesse parlando a uno squilibrato. Il progetto dell’autoritratto si bloccò li. Dire che l’opera di Charles Ray rientri fra le opera non finite forse però non è esatto e forse nemmeno giusto. Infatti, ricordando le nostre conversazioni potrei dire che quell’opera era già finita nel suo racconto e nel suo concepimento. Anche oggi a distanza di tantissimi anni e pensando a quell’idea non potrei dire che non è finita, anzi direi proprio che in un certo senso non aveva nemmeno bisogno di essere cominciata. Che forse è il complimento più grande che si possa fare ad un artista e a un capolavoro.