Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2018
Il cinema raccontato attraverso le locandine dei film
Pittori di cinema, un magnifico volume in grande formato, antologia di manifesti schizzi bozzetti di chi negli anni ha commentato e pubblicizzato i film di un’epoca passata, è un regalo per gli appassionati di cinema, e in particolare per quelli che amano poco il cinema contemporaneo – raro di risultati e misero quanto a capacità di suscitare sogni, fantasie, immedesimazioni – e hanno invece molto amato il cinema di ieri e dell’altro-ieri. Il cinema è stato, come tanti hanno detto, l’arte del Novecento insieme alla fotografia, la novità che nel campo dello spettacolo ha saputo coinvolgere le masse di tutto il mondo istruendole, provocando la loro immaginazione, suggestionandole, sollecitando confronti e desideri. La sua presa sul pubblico di massa si è servita di uno strumento particolare, il divismo, idealizzazione di figure maschili e femminili da venerare come dèi pagani, e la possibilità di far vivere loro sullo schermo quelle vite che il pubblico non poteva vivere, ma in cui poteva proiettare le proprie frustrazioni e i propri desideri.
Si vedeva tanto cinema nel nostro Paese e in genere nel mondo, tra gli anni Dieci e gli anni Settanta del secolo scorso, prima che altri mezzi di comunicazione ne indebolissero la presa e ne soffocassero l’identità. Ed è all’ultima parte di quell’epoca d’oro che il grande e prezioso, coloratissimo volume curato da Massimo Baroni, collezionista e storico del manifesto cinematografico, rende giustizia antologizzando manifesti e locandine (e altri materiali pubblicitari destinati quasi sempre soltanto agli esercenti delle sale per indurli a noleggiare questo o quel film, questo o quel blocco di film di questa o quella casa di distribuzione), e i materiali preparatori, i bozzetti, gli schizzi, le prove di 29 “pittori di cinema”, autori dei manifesti che sono riusciti ad attirare nelle sale cinematografiche, nel nostro Paese, milioni di spettatori.
Gli anni sono quelli del Dopoguerra, su fino ai Settanta e raramente oltre, e i film più vecchi sono, come Via col vento, quelli che la guerra aveva impedito agli italiani di vedere e che venivano recuperati come novità nella gran sete d’America del nostro pubblico, o come Ombre rosse e Scarface delle “riprese” estive. Qual era la funzione dei manifesti cinematografici? Di avvertire dei film in distribuzione, città per città e quartiere per quartiere, di attirare la gente nelle sale, i meno nei giorni feriali, i tanti nei giorni festivi o nei sabati, ma allora soltanto di sera perché i sabati non erano ancora festivi. Nelle sale di prima, seconda e terza visione, in quelle parrocchiali, nelle arene estive. Un film aveva una durata di programmazione di sette anni, che sono tanti, e che obbligavano spesso gli spettatori delle terze visioni e delle province più lontane a vedere pellicole frantumate... Il manifesto era una parte essenziale di questo percorso, lo seguiva e lo preparava, lo commentava, e dei film che si finiva per non vedere i manifesti davano comunque un’idea, destavano un’impressione. Ricordate nelle scene iniziali di Ladri di biciclette la scena del furto, proprio mentre Maggiorani sta incollando a un muro – ce ne vorrà di tempo, prima dei divieti di affissione dei manifesti di cinema sui muri delle città, quasi su tutti! – un manifesto di Gilda, con la fascinosa Rita Hayworth sogno americano? Quel manifesto l’aveva disgenato per la Columbia italiana Alfredo Capitani (ed era evidente nel suo uso il “messaggio” moralistico dei neorealisti Zavattini e De Sica nemici, allora, di Hollywood); e ancora negli anni delle nouvelles vagues era possibile al ragazzino Antoine Doinel (Jean-Pierre Léaud) dei 400 colpi rubare una foto (non una locandina) con una procace attricetta (forse Etchika Choureau?) dai “cartelloni” affissi all’esterno di una sala. Ma in quanti altri film non abbiamo visto scene in cui facevano bella mostra di sé dei manifesti di film che servivano a dar credibilità a un’ambientazione storica, per esempio nelle tante pellicole del tempo di guerra e Dopoguerra girati molti anni dopo.
Negli autori antologizzati da Baroni con precise note biografiche e appunti competenti possiamo ritrovare gli umori di epoche diverse e non solo le scelte estetiche diverse dei disegnatori (e dei produttori, e dei registi che, i più esigenti, chiedevano loro una precisa e forte adesione alla loro idea del film e al modo in cui invogliare a vederlo i nostri spettatori. La vasta galleria di esempi permette di riconoscere la mano dei diversi “pittori di cinema” ma anche l’idea di un film che volevano darne gli autori, e i nostri più grandi – da Fellini con i Geleng, a Leone con Francesco Fiorenzi, a Pasolini e ad Argento con Sandro Symeoni, eccetera – sapevano cosa volevano, e sceglievano artisti che li capissero e assecondassero. Ripercorriamo con Baroni figure di artisti affascinanti, i Campeggi, Avelli, Manno (Riso amaro e la Mangano! Europa 51 e la Bergman!), Innocenti (Rocco!), il Putzu che indignò Pio XII con il suo Poveri ma belli!) eccetera, e se è qui impossibile ricordarli tutti, è possibile scoprire i loro nomi e ammirare il loro lavoro grazie a questo libro!
Un salto vi fu negli anni Sessanta, con arditezze che corrispondevano a quelle di una società in frenetica evoluzione – e perfino il lettering dei manifesti e dei titoli di testa o di coda dei film ne risentì, una sorta di rivoluzione aperta dal geniale americano Saul Bass, e anche sul letteringquesto libro ha tanto da insegnare, tanto mostrando). La qualità di questi artisti è impressionante, anche se vi si prediligono gli autori più colti e originali trascurando, mi pare, quelli meno inventivi del cinema popolare – ed è un peccato, perché si sarebbe amato rivedere, che so?, i manifesti o i bozzetti delle Sepolte vive e dei Core ingrato, e dei film del fascismo che “parlavano al cuore” o in cui si comunicava con i “telefoni bianchi”, quelli in stile «Domenica del corriere» o «Grand Hotel», quelli di Maciste e dei più miseri tra gli spaghetti-western...
Baroni si è comportando da collezionista del meglio, del creativo e non del banale ed è in questa chiave che il suo libro va goduto, di autore in autore e di film in film, pensando ai risultati di un’arte minore ma tutt’altro che disprezzabile. Come dimostrano in particolare, oltre i risultati “stampati”, i tanti bozzetti e i tanti schizzi, di una vivacità e invenzione insieme libere e controllate, perché i condizionamenti – l’obbligo di prendere di un film l’idea centrale e gli elementi più attraenti e comunicativi – non sempre sono nemici dell’invenzione, come sapevano i grandi artisti del passato e tutti quelli che hanno lavorato e ancora lavorano “su commissione”. Ci sono artisti di tutto rispetto, in questa rassegna, ci sono i risultati di un lavoro godibile e istruttivo come, appunto, era quello, eminentemente “di gruppo” in chi lo faceva e “di massa” in chi lo godeva, del cinema nei suoi momenti di maggior gloria. È in mancanza di un cinema attuale che abbia anche un briciolo di quella forza che torniamo ai dvd e, con questo libro, alle immagini che hanno segnato un’altra storia e altri sogni.