Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2018
Storia recente dei consumi e del consumismo in Italia
Quella in cui viviamo è una vera e propria società dei consumi sia perché tanti sono i beni e i servizi che figurano da tempo nell’uso comune sia perché altri stanno imponendosi nella nostra vita quotidiana. È questo il risultato di un processo di lungo periodo ma che soltanto negli ultimi decenni ha cominciato a essere indagato più a fondo dagli studiosi. Anche in Italia si sono così moltiplicate le ricerche sulle tipologie e le dinamiche dei consumi dall’Ottocento ai giorni nostri. Veniamo così a disporre in proposito di un Annale della Storia d’Italia Einaudi (curato da Stefano Cavazza e Emanuela Scarpellini), composto da ben ventisette saggi, densi di dati e riflessioni. Il fil rouge che li accomuna non è solo una dovizia di informazioni sull’evoluzione dei consumi ma anche un approccio metodologico basato su un incrocio di visuali e modelli interpretativi pluridisciplinari, che rende conto della complessità del fenomeno preso in esame nei suoi poliedrici aspetti e risvolti.
Perciò quel che emerge dalle pagine di quest’opera collettanea non sta tanto nella conferma di una sostanziale preminenza sino alla metà del secolo scorso della triade dei consumi di base (relativi al vitto, alla casa e al vestiario) nei bilanci della maggior parte delle famiglie italiane, quanto piuttosto in un’analisi dettagliata ed emblematica delle differenziazioni esistenti in merito al peso specifico di ognuno di questi consumi primari, nonché delle loro motivazioni e linee di tendenza, a seconda dei vari ceti sociali, delle città e delle campagne, delle diverse contrade e regioni. È dato così riscontrare come, nel corso del tempo, mentre i consumi della popolazione contadina rimangano fondamentalmente statici (per l’assoluta prevalenza di cibi poveri costituiti per lo più dai cereali e da quelli con poche proteine animali) e senza variazioni per il resto, qualche miglioramento si registra invece nel caso degli artigiani e degli operai di mestiere residenti in talune aree urbane del Nord, ma soprattutto fra la piccola e media borghesia, la cui dieta si arricchì man mano, a partire dal primo decennio del Novecento, unitamente a un aumento delle spese dedicate all’abitazione e all’abbigliamento. E ciò in virtù sia delle sue maggiori disponibilità economiche sia delle sue aspirazioni a uno status di decoro e rispettabilità. Profonde rimasero comunque le distanze rispetto non solo ai lussuosi standard di vita dell’aristocrazia ma pure alle condizioni agiate di un’emergente alta borghesia, tendente a imitare certi stili e costumi esteriori della nobiltà, anche se intimamente convinta dell’importanza del lavoro, della parsimonia e della morigeratezza, quali propri valori identitari e competitivi.
L’interventismo pubblico cresciuto durante la Grande Guerra e poi ereditato dal regime fascista diede luogo, fra gli anni Venti e Trenta, a un nuovo genere di “consumi collettivi” riguardanti l’assistenza e la previdenza (e in parte l’istruzione) per varie categorie della popolazione, i cui benefici si dissolsero tuttavia a causa della gran somma di stenti e sacrifici provocata dalle drammatiche conseguenze del secondo conflitto mondiale nonché dalla dilagante spirale inflattiva prolungatasi nell’immediato dopoguerra a scapito del potere d’acquisto delle famiglie meno abbienti.
Soltanto dall’inizio degli anni Cinquanta, in coincidenza con l’affermazione dei diritti individuali all’uguaglianza e l’azione svolta a tal fine dai principali partiti, comparvero i primi sintomi di svolta verso una progressiva democratizzazione dei consumi, che assunse poi, in seguito al “miracolo economico” e alla crescita dell’occupazione, caratteri “rivoluzionari”. Non solo perché da allora, nel giro di un ventennio, si triplicò la cifra complessiva dei consumi e raddoppiò quella procapite; ma perché vennero modificandosi sensibilmente gli ingredienti della dieta alimentare rispetto a quella tradizionale (con più carne, latticini, verdure e frutta) e diventarono più consistenti le voci di spesa concernenti il mobilio e il guardaroba. Inoltre andò ampliandosi sia la gamma dei beni di consumo durevoli (con in testa gli elettrodomestici, i motoveicoli e le automobili) che quella delle forme riguardanti l’intrattenimento e il tempo libero (dal cinema alle manifestazioni sportive, ai soggiorni estivi al mare e in montagna).
Anche in Italia vennero così diffondendosi, con la riduzione delle precedenti forti disparità di consumi fra il tenore di vita dei ceti popolari e quelli delle élite più facoltose, le suggestioni e i comportamenti già invalsi nelle più moderne società di massa occidentali e si manifestò una corsa verso il benessere.
Peraltro, questo fenomeno portò non solo gli esponenti dell’intellighenzia neo-marxiana (come Theodor Adorno, Max Horkheimer e poi Herbert Marcuse) a condannare la spinta prorompente verso l’espansione dei consumi, considerandola il risultato di illusioni e suggestioni alimentate strumentalmente, sulla scia del neocapitalismo, da grossi gruppi d’interesse. Anche gli ambienti religiosi espressero severe critiche, per motivi etici e valorali, nei confronti di un sopravvento di concezioni eminentemente materialistiche. Inoltre alcuni studiosi di matrice liberal-democratica non mancarono di mettere in guardia contro certe insidiose forme di manipolazione del consenso insite nelle campagne pubblicitarie volte a incentivare la proliferazione dei consumi. Tuttavia questi moniti e giudizi critici, contro una mercificazione abbagliante e non priva di effetti distorsivi, non servirono a rallentare il flusso magmatico dei consumi: tanto più nel nostro Paese in quanto esso esprimeva anche una rivalsa a livello popolare nei riguardi di tanti decenni trascorsi fra penurie e ristrettezze.
Negli ultimi anni, mentre si sono moltiplicate le spese per una gran varietà di consumi (sino allo smartphone e altri congegni digitali), si è imposto piuttosto, per la classe politica, l’obiettivo di riequilibrare i rapporti fra redditi e consumi di una popolazione in via di crescente invecchiamento. Frattanto, in concomitanza con la globalizzazione, il baricentro della realtà e della cultura economica è andato spostandosi, pure da noi (come nei paesi più avanzati), dalla produzione al mercato, e i consumatori, grazie anche ad alcune nuove disposizioni a tutela dei loro acquisti, hanno assunto un ruolo di maggior rilievo nel sistema sociale e normativo.