Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2018
La carica degli Asburgo
Ci illumini l’invito di Mallarmé nel Tombeau d’Edgar Poe: «Donner un sens plus pur au mots de la tribu». All’auspicio del poeta risponde, alla fine dei Four Quartets di Eliot, il fantasma dell’europeo Dante: «To purify the dialect of the tribe». Una civiltà di granito o d’acciaio, una cultura d’oro e di diamante non resiste, va in frantumi, se vengono meno gli strumenti della memoria storica. Essi sono: la conoscenza dei linguaggi antichi e moderni, liberi da ogni odiosa “querelle”; l’insofferenza per il pensiero unico, per la verità rivelata a priori, per dogmi e devote superstizioni, e per ogni pretesa di “guidare” le coscienze e le credenze; la persuasione (nel senso michelstädteriano) che le parole siano più importanti delle cose, e le idee più dei vantaggi, e che nell’esistenza la sfera dell’essere sia considerata più importante e desiderabile della sfera dell’avere.
Senza la fatica di conservare in perfetta efficienza quegli strumenti, è poco produttivo indagare su un oggetto labirintico: la realtà storica degli Asburgo. (In nome di fondatissime ragioni, preferiremmo che l’adattamento italiano fosse “Absburgo”, ma rispettiamo la scelta dell’editore). Il labirinto è anche ingombrante e difficile a usarsi: è lecito smontarlo e rimontarlo, ma guai a sbagliare o a dimenticare il minimo giunto di raccordo, la più microscopica vite. Funesti sono gli equivoci in cui si può incorrere. Una volta frainteso il significato di un elemento essenziale ma seminascosto da stritolanti complicazioni genealogiche e dinastiche e da impercettibili sfumature politico-culturali o, ahinoi, religiose (queste ultime, quanto più sincere e drammaticamente vissute dai regali protagonisti, tanto più nefaste), gli errori d’interpretazione storiografica proliferano come una metastasi. Sono da evitare le false identificazioni. Pessimo è lo studioso che confonda la casata d’Asburgo con l’Impero asburgico, quest’ultimo con il Sacro Romano Impero sopravvissuto fino al 1804-1806, l’Austria con l’Austria-Ungheria, il territorio dominato dagli Asburgo con la Mitteleuropa, gli austriaci con gli austro-tedeschi, gli Asburgo anteriori all’abdicazione di Carlo V con quelli successivi, i nobili “mediatizzati” con quelli che non lo sono (sottilissima distinzione che dà filo da torcere a Ulrich nei suoi rapporti con il conte Leinsdorf, capitolo 24 dell’Uomo senza qualità). Dio liberi dalla confusione tra l’Austria più l’Ungheria e l’Austria-Ungheria, tra il territorio germanofono e la Cisleithania, tra la terra in cui si parla in lingua magiara e la Transleithania (troppo comodo!). Ci si imbatte continuamente in microcosmi che ripetono il macrocosmo e nelle ontogenesi che ripetono le filogenesi, sì, ma non troppo. Si rilegga ancora, del gigantesco romanzo di Robert Musil, il capitolo 8 della prima parte: la Cacania è il paese in cui tutto è kaiserlich und königlich, “imperiale e regio”, K & K, ka und ka, e non si pensi che ciò significhi semplicemente, “austriaco” e “magiaro”: eppure lo si potrebbe pensare, essendo il sovrano (soprattutto Franz Josef I, regnante tra il 1848 e il 1916), imperatore d’Austria e red’Ungheria, sì, ma anche anche principe e signore di una miriade di piccoli possedimenti, in un sistema dinastico-istituzionale in cui 1+1 non faceva 2 ma qualcosa di più…o di meno.
Attenzione: molti luoghi comuni sono stati smantellati o corretti, salvo poi ad essere ricorretti rispetto alla correzione. La celebre monografia di Karl Schorske, Fin-de-siècle Vienna (1981), è rivelatrice di questi virtuosismi storiografici. Vienna, e dunque l’Austria della grande cultura e dei rapporti stretti tra politica, intellettualità e Corte asburgica, fu tendenzialmente antisemita, o fu in Europa l’unica plaga in cui gli ebrei furono rispettati e sovente premiati? Franz Josef non congelò forse per due anni la carica di borgomastro di Vienna cui era stato eletto il feroce antisemita Karl Lueger, al fine di garantire i diritti degli ebrei viennesi, ottenendo l’elogio pubblico di Sigmund Freud che pure detestava gli Asburgo? Sempre Musil condensa quell’enigma in formule esatte: «Secondo la Costituzione era uno Stato liberale, ma aveva un governo clericale. Il governo era clericale, ma lo spirito liberale regnava nel paese». Ma poi: i “clericali” Asburgo non furono forse, in Europa, i dinasti più severi contro l’ingerenza, l’arroganza e le usurpazioni ecclesiastiche?
Studiare e interpretare la storia degli Asburgo non è un’impresa dilettevole, da “cultori della materia”. È una riflessione sulla nostra esistenza, sul nostro periclitante avere (nella sfera dell’avere sono primari i beni immateriali, ideali gli unici che rendano la vita degna di essere vissuta) e del nostro ancor più periclitante essere. Per chi onori il proprio dovere di donna o di uomo d’Occidente, e voglia fermamente coltivare la memoria storica, meditare sugli Asburgo e sull’Europa (e oltre) così come gli Asburgo l’hanno modellata determinando con le proprie azioni politiche i destini di esseri umani e di territori, sarebbe come, per un credente musulmano, meditare sulla dinastia abbaside e su Harun al-Rashid. Rischiamo di pestar acqua in un mortaio, se non apriamo gli occhi su una dimensione superiore del problema interpretativo. Parlare di errori storiografici, non eliminabili ma riducibili e continuamente criticabili, non significa respingere, con fastidio, un mito. Un giovanissimo Claudio Magris, nel 1963, ci diede un libro capitale edito da Einaudi, Il mito absburgico nella letteratura austriaca moderna(con la “b”). A parte la dovizia di conoscenze che il geniale ventiquattrenne ci offrì, due idee fondamentali di Magris hanno lasciato un’impronta sulla cultura occidentale: (a) il mito asburgico, la coscienza oramai radicata dell’importanza anche metastorica e simbolica di quella dinastia, tutto questo, latente per decenni, è esploso e ingigantito dopo la fine materiale e geo-politica dell’Impero asburgico, quasi una sublimazione o una transustanzazione; (b) quel mito non è mitico, anzi è realissimo in quanto mito, e della realtà storica degli Asburgo e del mondo da essi modellato è parte integrante e inamovibile.
Un grande libro, grande in ogni senso, è La saga des Habsbourg (Perrin, Paris 2013) di Jean-Marie de Pérousse des Cars. L’autore, nato nel 1943, si è rivelato come narratore iper-documentato di grandi figure storiche. Dei suoi circa 30 volumi biografici, l’esordio fu nel 1975 il saggio su Ludwig II. Nel 1983 uscì la biografia di Elisabeth detta “Sissi”, imperatrice d’Austria e sposa di Franz Josef, e anche di questa, oltre che del presente volume sugli Asburgo, la Leg è l’editrice italiana. Molto dissimile da due libri fondamentali poco fa citati, quelli di Schorske e di Magris, e collocato in un suo registro espositivo di forte e diretta energia narrativa, il vasto lavoro di des Cars raggiunge un alto livello di qualità grazie proprio alla sua diversità. Schorske espone a freddo, prende le distanze dalle figure storiche di maggiore rilievo, usa un’icastica ironia nel raffigurare facendo vista di tacere il giudizio: canaglie come Lueger o Schönerer ne escono impietosamente ritratti. Magris ci guida a caldo attraverso percorsi tendenzialmente drammatici, spesso dolenti, sempre confinanti con rivelazioni e incanti, e nello stesso tempo estrae inesauribili documenti dal suo scrigno (Magris narratore fa tesoro della propria esperienza saggistica). Des Cars, diversamente, si fa largo attraverso coloro di cui narra la storia. Entra nella scena, oltrepassa lo schermo e vi penetra. Ci attira, invitando anche noi ad avvicinarci, facendoci toccare con mano. «Essere non solo una famiglia a capo di un paese ma il rappresentante di un aggregato di nazioni, essere a capo di mezza Europa e di gran parte dell’America, portare una corona ancora più pesante di quella dell’Impero britannico e, nello stesso tempo, passeggiare tranquillamente al Prater con un ombrello sotto il braccio, è uno spettacolo cui mai più avremo la fortuna di assistere. In loro coesisteva un meraviglioso equilibrio tra maestà e semplicità».
Questo è lo stile, e il farci “entrare” e “toccare” è una naturale eleganza dell’autore. Insieme con questo, si badi, ciò che diventa il “nostro avere”, poiché anche la sfera dell’avere è seducente e nobile se predilige, come si diceva al principio, il collezionare beni immateriali e non transeunti. Un esempio che resta nella memoria del lettore lungo tutto il libro è il sub-capitolo C’era una volta una volta un castello in Svizzera, rifugio di uccelli predatori… «Molto vicino alla cittadina di Brugg, il castello delle origini, edificato verso l’anno 1020 da un certo Radbot [attenzione: Radbod è, in Lohengrin di Wagner, la casata principesca della strega malvagia Ortrud – N.d.R.], si chiamava Habichtsburg, il castello degli astori…». Ecco l’origine del nome: animali da preda, né più né meno che le radici etimologiche di altre casate nobiliari. Divertitevi con una ricognizione onomastica fra i cognomi, anche italiani!
E quanta storia di terre e mari, quante storie individuali, di donne e uomini che furono ascendenti e avi di ciascuno di noi, sono stati contraccolpi ed effetti ritardati di un batter di ciglia, di una velleità, di un capriccio, di un atto di lussuria da parte di qualcuno o di qualcuna che abbia portato quel cognome. O anche fra loro, nel loro sangue. Che Juana de Trastàmara ossia Juana la Loca fosse tenuta lontana dall’alcova di Filippo il Bello per ordine dello stesso avvenente marito che “non ce la faceva più”, che lei, Giovanna la Pazza, lo fosse per gelosia, non avrà avuto influenza sul fatto che Carlos loro figlio, il futuro imperatore Carlo V, fosse quasi autistico da ragazzo e non riuscisse a parlare decentemente alcuna delle lingue che si parlavano nel suo immenso impero transcontinentale? E uno fra gli innumerevoli pregi del libro è il vastissimo spazio che l’autore dà agli Asburgo vissuti dopo il 1918: in particolare, a Otto d’Asburgo, presenza operosissima eppure quasi invisibile nella recente storia d’Europa.