Il Sole 24 Ore, 19 agosto 2018
A pranzo con il designer Michele De Lucchi
«Achille Castiglioni con la matita in mano taceva. Ettore Sottsass con la matita in mano parlava». Michele De Lucchi, seduto per questo “A Tavola Con” alla Torre di Pisa, inforca gli occhiali bifocali ricavati da corni di bue. Ha un paio di sneaker nere ai piedi e indossa un vestito blu notte disegnato dallo stilista giapponese Issey Miyake.
Siamo in via dei Fiori Chiari a Milano. «Proprio a quel tavolo – racconta – ogni giorno, a pranzo e a cena, mangiava Ettore Sottsass». De Lucchi, classe 1951, è un architetto e un designer. È figlio degli anni Settanta, un periodo vitale e conturbante. Ma non si è fatto schiacciare dai maestri di quel tempo fecondo e – a suo modo – violento. «Sottsass è stato fondamentale per me e per molti altri della mia generazione. Ci ha sicuramente nutriti, ma in qualche misura ne eravamo anche succubi. In ogni caso, il rapporto con lui si è inchiavardato sull’esperienza di Memphis, che è stata straordinaria. Non mi ha mai chiesto di entrare nel suo studio. E, questo, è stata una fortuna».
De Lucchi ordina del pesce spada con una battuta di verdure mediterranee. Io scelgo una punta di vitello con i funghi. Nessuno dei due beve vino. Io prendo dell’acqua minerale gassata, lui naturale. «Memphis ha segnato un prima e un dopo nella cultura del nostro Paese. E ha avuto abbastanza energie per rompere il pensiero comune. La critica al design funzionalista è stata feroce. L’approvazione del connubio fra il design e la moda era tutt’altro che condivisa, anzi veniva quasi detestata dagli architetti tradizionalisti. Per lui, e per noi che venivamo in questa trattoria o che ci recavamo qui dietro nel suo studio, la ricerca della sperimentazione era basata sul concetto della natura ibrida della creatività e sulla prassi dell’incrocio fra il design, l’architettura e quello che oggi si definirebbe l’artigianato».
La genesi di un fenomeno specificatamente italiano come Memphis – con tutte le sue contraddizioni, compresa l’ossessione per una destrutturazione e una riconfigurazione degli uffici delle imprese industriali e delle case borghesi, mai davvero risolta e compiuta – è anche da rinvenire – come seme iniziale – nella California della controcultura: «In qualche maniera, fra gli anni 70 e gli anni 80, Sottsass ha compiuto una traslazione nel design, nell’architettura e nelle arti visive dell’impatto eretico della Beat Generation e di Jack Kerouac, di Lawrence Ferlinghetti e di Allen Ginsberg».
La forza di Memphis – conclusasi nel 1987 fra le imperfezioni e gli errori di ogni esperienza storica e umana – resta per De Lucchi intatta e il suo ricordo assume una valenza paradigmatica e fondativa, in senso valoriale e cognitivo. Tanto che la sua idea di una architettura fatta di oggetti e di relazioni fra oggetti e contesti ha – anche – le sue radici in quel periodo, carico di attese e di utopie, e in quel movimento, intenzionato a criticare dall’interno la società e l’idea della bellezza. «Non a caso – riflette De Lucchi – la mia attuale direzione di Domus, con Walter Mariotti direttore editoriale, ha avuto come prima delle parole chiavi di ciascuno dei dieci numeri della rivista il termine “ribellione”».
Nella sua dimensione di designer e architetto – perseguita attraverso una studio di piccole dimensioni, oggi con lui a Milano operano 35 persone – De Lucchi ha collaborato con istituzioni culturali – il primo allestimento del museo del design alla Triennale di Milano, le Gallerie d’Italia sempre a Milano e la biblioteca della Fondazione Cini a Venezia – e con manifestazioni come Expo, dove ha progettato l’Expo Center e il Padiglione Zero. Negli anni ha lavorato molto con le imprese: Kartell, Artemide (la Tolomeo, realizzata nel 1987 con Giancarlo Fassina, è una delle lampade più vendute al mondo), la Olivetti (dove prima progetta gli arredi da ufficio con il marchio Synthesis e poi, dal 1992, diventa supervisore del design di tutto il gruppo), Deutsche Bahn, Deutsche Bank, Banco Português do Atlântico, Enel (sei centrali elettriche a ciclo combinato sono sue), Poste Italiane, Piaggio, Telecom Italia e Intesa Sanpaolo.
«In qualche maniera – riflette De Lucchi – il lavoro con le organizzazioni complesse mi ha indotto a pensare alla mia dimensione imprenditoriale. Io amo il rapporto con il cliente, ma non amo l’aspetto gestionale. Il mio studio è piccolo. Non ha nulla a che vedere con le grandi realtà dei colleghi che hanno uffici in tutto il mondo. La mia cifra è assai personale. In un Paese come il nostro, la strada da perseguire non può essere la fedele riproposizione del modello anglosassone, con i partner e gli azionisti che subentrano al fondatore quando questi muore, come nel caso di Zaha Hadid. Ma, di certo, un percorso per garantire un futuro allo studio quando io non ci sarò più occorre approntarlo. Penso a maestri come Castiglioni, Sottsass e Marco Zanuso, le cui scomparse sono coincise con l’estinzione dei loro studi».
Il profilo molto personale di De Lucchi – in una sorta di oscillazione fra la realtà del mercato e una realtà individuale quasi intimistica – è evidente anche nel rapporto con la committenza. O, meglio, nella costruzione di un angolo caratterizzato dall’assenza della committenza. Uno spazio conservato e difeso pure nella naturale quotidianità fatta di concretezza e di conti da pagare, di soldi da guadagnare e di concorsi a cui partecipare. Racconta a questo proposito: «A tre anni dalla fine di Memphis, nel dicembre del 1990 aprii Produzione Privata mettendomi a lavorare di nuovo appunto senza alcuna committenza, per il mio puro piacere, con gli artigiani del marmo di Carrara, del legno della Brianza e del vetro di Murano». Una cifra – dunque – privata che si esprime per esempio ad Angera, sul Lago Maggiore, dove De Lucchi ha la casa di famiglia e dove ha uno studio in cui dedicarsi a una sorta di metafisica del truciolo: il pensiero sugli oggetti, sugli spazi e sulle relazioni, realizzato nelle sue fasi embrionali e nei lavori – fatti a mano, nella segheria e negli altri laboratori – nella solitudine che a Milano non sarebbe consentita.
Oggi De Lucchi, che con i suoi sessantasei anni e una esperienza personale e professionale estremamente vasta può essere considerato il più giovane dei vecchi o il più vecchio dei giovani fra i designer e gli architetti italiani, lavora molto in Georgia, sul Mar Nero. «Devo dire che, ultimamente, le cose che mi scaldano più il cuore sono i lavori che ho fatto là: penso al Ponte della Pace nella capitale Tbilisi. Per quel popolo, ancora segnato dal totalitarismo ateo e marxista dell’Urss, l’architettura ha il senso classico della costruzione della identità. Quando non apprezzano qualcosa, dicono: “mmmhhh... sembra un po’ sovietico”».
Mentre passiamo a scegliere il dolce – entrambi alla fine prendiamo una tarte tatin, lui con aggiunta di gelato alla crema – De Lucchi torna sul tema della non committenza: «Ho concepito una serie di progetti chiamata Earth Stations. Non nascono da richieste di clienti, ma da nostri autonomi impulsi: sono biblioteche, esposizioni fieristiche, sale congressi, musei, studi televisivi, mercati, ristoranti. Hanno forme e funzionalità diverse dagli standard. Rappresentano una idea di nuovo mondo. Sono visionarie. Le Earth Stations sono l’equivalente della ricerca pura che viene compiuta nella scienza e nell’industria per provare a spostare i limiti della conoscenza».
Oggi gli architetti sono spesso uomini di intelletto e d’affari che cercano – non senza difficoltà – un equilibrio fra l’estetica e il denaro. Trattano commesse milionarie. Sovraintendono a flussi finanziari. Parlano con le classi dirigenti: la politica, ma non solo. Alla fine, diventano loro stessi dei brand. In una simile professione – perché tale rimane il mestiere dell’architetto e del designer – la gestione fra il mondo interno – la propria interiorità e la propria spiritualità – e il mondo esterno – con le sue regole belluine e i suoi obblighi – è complicata per tutti.
Michele De Lucchi è un uomo di mondo, ma gentile e con una antropologia che concilia l’intenso desiderio all’autoaffermazione e una certa vocazione a un timida mitezza. Il 23 dicembre 1999 De Lucchi ha un appuntamento a Ivrea in Olivetti. «Era l’ultimo incontro del millennio. Pensavo che fosse una normale situazione di lavoro. Invece mi portarono in un piccolo paese, Salerano Canavese. C’era il progetto di un hospice, una struttura per malati terminali di cancro e di malattie nervose-degenerative, e di un centro diurno per malati di Alzheimer. Mio padre Alberto e mia madre Giuliana, che non ci sono più, avevano sofferto molto nell’ultima fase delle loro vite. I promotori mi chiesero un servizio: contribuire, con la mia opera, a quell’hospice e a quel centro diurno. Mi sembrò un segno. Una richiesta simile. L’ultimo appuntamento del millennio. Lo feci. Progettai tutto con i ragazzi del mio studio. E, poi, organizzai un’asta con i miei amici designer e architetti milanesi. Molti di loro apportarono disegni, progetti, prototipi e oggetti. Raccogliemmo 80mila euro. Fu molto bello».
E, mentre entrambi sorseggiamo il caffè, a sentire queste parole di Michele De Lucchi mi viene in mente il Le Corbusier di Verso una Architettura: «L’architettura è un fatto d’arte, un fenomeno che suscita emozione, al di fuori dei problemi della costruzione, al di là di essi. La Costruzione è per tenere su: l’Architettura è per commuovere».