il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2018
Intervista a Max Gazzè
Il tono sussurrato, la leggera zeppola nella pronuncia, la confusione di un bar, complicano, a prescindere, qualunque conversazione; se poi uno ha di fronte Max Gazzè che tratta gli Esseni con la stessa naturalezza riservata a una moderna popolazione europea, o i manoscritti di Qumran alla stregua di un best seller da classifica estiva, allora tutto questo diventa un mix caotico, a volte spiazzante, in altre surreale. Comunque divertente. Davanti a Gazzè uno deve decidere quale bivio prendere tra una versione in stile conte Mascetti in Amici miei, un documentario di Piero e Alberto Angela, o se si è preda dei brani storici di Franco Battiato. Non basta. Al bar arriva pure vestito da perfetto motociclista, dopo una gita in Harley Davidson (“In realtà è un transatlantico da passeggio. E da quando la posseggo ho imparato il saluto da harleysta”. Qual è? “Indice e medio ben alti, e non all’incontrario, altrimenti è vaffanculo all’inglese”. Per carità); piccola pausa in solitaria mentre è in tour con il suo Alchemaya, un’opera “frutto della fusione tra orchestra sinfonica e sintetizzatori”, con brani dell’ultimo lavoro più i successi storici. È lui il protagonista della seconda serata del Fatto alla Festa della Versiliana (venerdì 31 agosto). Il concerto ha debuttato il 5 agosto a Roma, alle Terme di Caracalla; si è concluso con la standing ovation dei 4mila presenti.
Tutti in piedi.
E mi sono ritrovato davanti al microfono con i brividi sulla pelle e qualche lacrima negli occhi; a cinquanta e passa anni lo stupore è sempre una delle emozioni più belle da poter vivere.
Se le avessero proposto un progetto del genere trent’anni fa…
Avrei risposto: “Prima devo scrivere qualcosa di decente”.
Levante la descrive così: “Max non cade mai nella retorica dell’uomo impegnato al quale non si può chiedere nulla”.
E perché dovrei tirarmela? Comunque dipende dai contesti, quando sono al supermercato evito le classiche distrazioni da selfie e domande; quando sono lì mi concentro solo sulla spesa.
Lei casalingo.
Compro il latte di capra, i succhi di frutta…
Biologico.
Questo non lo so, evito solo l’acido ascorbico per timore del bruciore di stomaco.
È un cultore dell’esoterismo.
Già da piccolo ero un topo da biblioteca, soprattutto quando Internet ancora non esisteva: mi chiudevo dentro e il mondo restava fuori; poi dai libri partivo per scoprire le mie realtà.
Tipo?
Egitto, Israele, indagavo e indago la mitologia e la storia; il confine tra mitologia e storia, con riflessi esoterici, o i manoscritti di Qumran…
Insomma, Topolino e Minni…
Aggiungo i Sumeri, l’armonia delle sfere, Pitagora, gli insegnamenti della geometria sacra applicata alla musica. E molto lo devo a mio padre, grande studioso di teologia.
Cattolico?
Lui molto, ogni domenica mi portava in chiesa, ma senza impormi alcunché, senza nessuna preclusione culturale, tanto da regalarmi dei libri sugli Esseni.
Ora anche gli Esseni?
Ho cercato di conoscere questa popolazione ebraica quasi misteriosa, bistrattata sia dalla cultura cristiana, che da quella ebraica…
Cosa ha scoperto?
Erano strani, diversi, isolati per scelta, quasi degli eremiti. Affascinati dalla loro riflessione.
In queste letture quali risposte cerca?
Non leggo per trovare risposte, anzi; leggo col l’occhio della serie televisiva, cerco di comprendere le evoluzioni della storia.
I misteri restano tali.
Fin quando c’è una conoscenza non conosciuta, e poi esistono delle risposte impossibili da scovare. E aggiungo: per fortuna.
Nel qual caso…
Per me più si alza il livello di conoscenza e di coscienza, e più gli orizzonti delineati si allontanano, più resto affascinato; è come salire in cima a un albero e ammirare l’orizzonte, mentre c’è chi si accontenta di affacciarsi da una finestra di un piano basso.
Più conosce meno sa.
Senza la possibilità di raggiungere la parola fine.
Con i suoi figli ne parla?
Dipende dall’atmosfera e dalla condizione giusta, mica posso torturarli a prescindere; cerco sempre di inserire nei miei discorsi delle storielle più semplici, mi attacco a degli esempi…
Ce ne dica uno.
Tipo il pensiero taoista, gli parlo di Lao Tze (antico filosofo cinese), gli racconto degli Esseni, senza perdere di vista il dato fondamentale: sono ragazzi. E in quei casi penso sempre alla massima orientale: “I passi del maestro sono udibili solo per chi è pronto ad ascoltarli”.
L’obiettivo.
Mettere in discussione alcune presunte certezze acquisite dalla nostra storia; ciò che è stato interpretato e poi scritto non è una verità assoluta, spesso le interpretazioni sono errate.
Viene mai frainteso?
Il più grande fraintendimento sono alcune verità storiche, e mi dà molto fastidio.
In concreto.
In molti scritti antichi il problema è legato all’interpretazione dei linguaggi, riscritti svariate volte nei secoli. La storia è stata distrutta e ricostruita troppe volte, fin dai tempi di Gengis Khan. O la biblioteca di Baghdad o quella di Alessandria d’Egitto. Noi non conosciamo neanche l’un per cento di quanto è avvenuto nei millenni.
Un dialogo tra lei e Battiato, com’è?
Tanti anni fa, con mio padre, sono andato a un suo concerto, portava in scena la saga del Gilgamesh (1992) e in quel momento stavo studiando tutto il poema della Creazione che si chiama Enûma Eliš…
Vi siete parlati?
Quella volta no, ma nel 1996 ho aperto i concerti della sua tournée; poi un paio di anni fa siamo finiti dentro una bellissima conversazione a due: abbiamo dedicato un’ora solo al concetto “dell’anima che non ha tempo”.
Perfetto.
Anche per gli antichi egizi il tempo era il luogo del cambiamento; non è il tempo che cambia ma è la coscienza che si muove attraverso il tempo; poi abbiamo affrontato la materia, le interpretazioni, l’illusione.
Questo dialogo lo ha trascritto o registrato?
E perché dovevo?
Per non perderlo.
Talmente bello da non poterlo fissare, avrebbe sminuito il suo senso, e il suo senso non è la sola parola, ma la parola amplificata dal messaggio subliminale, veicolato attraverso uno stato di contemplazione reciproca.
Niccolò Fabi sostiene che lei sia la parte ironica, surreale e giocosa del trio composto anche da lui e Daniele Silvestri.
Noi tre siamo veramente molto diversi, ma c’è un affetto fraterno che consente di vivere le esperienze con un occhio comune; ognuno ha il suo ruolo, e con loro sono la parte goliardica del buongiorno.
Resta il dubbio se teme mai di non venir capito…
In realtà non lo so, perché non ho nulla da dimostrare.
Neanche da ragazzo?
Anche allora cercavo solo il senso delle azioni, poi se arrivano mi fa piacere.
Lei è cattolico come suo padre?
Credere in qualcosa apre le porte a quella realtà. Non credere a niente implica lo stesso sforzo che credere in qualcosa.
E…
Non rispondo a certi adattamenti legati a una forma monarchica bizantina in cui riconosco il Re dei Re, il trono, il regno dei cieli; se fosse andato avanti il vero significato del cristianesimo, forse avrei seguito maggiormente il percorso.
In “Basilicata coast to coast” Rocco Papaleo le ha assegnato un ruolo silenzioso “perché è difficile farla stare zitto”.
(Ride) E certo, ma solo perché Rocco è musulmano.
Allora Papaleo ha ragione.
È stata una scelta molto divertente, perché chi ha ispirato il mio personaggio è uno storico amico di Rocco, ed è stato bello costruirlo senza una parola, solo sulla musica, sull’intenzione, sull’espressione; senza cadere nella mimica esagerata.
Camminava con stile particolare…
Con il baricentro leggermente spostato indietro: sono entrato talmente tanto nel personaggio da non parlare neanche fuori dalle riprese, io ero lui, mi muovevo come lui, quasi pensavo come lui. Però quel film è veramente delizioso.
Nei primissimi anni Novanta è stato il componente di un gruppo formato da esuli iraniani.
Dei rifugiati dall’Ayatollah Khomeini, e insieme siamo anche stati in tournée; ah suonavo pure con un gruppo punk, e un altro jazz.
Sì, ma gli esuli…
Parlavamo in inglese e francese, ed era bellissimo perché la loro musica era molto melodiosa, un misto persiano-arabo con una spruzzatina di Pink Floyd, e grazie a loro ho girato mezza Europa, dalla Germania alla Scandinavia, e ovunque arrivavano i rappresentanti della comunità esule. L’emozione era vedere queste persone parlare e riallacciare i reciproci ricordi.
Da giovane ha spesso frequentato lo studio di Mario Schifano.
Grazie a mia moglie, conosciuta ai tempi del Locale (il disco-pub dove sono cresciuti musicalmente anche Fabi e Silvestri, oltre a Papaleo); era lei a conoscere Mario, ed è stata lei a presentarmelo.
Tipo particolare.
Mia moglie gli dava una mano, specialmente in alcuni momenti di sua difficoltà.
Quando non era molto lucido…
Ecco, appunto. Diciamo così: lui proseguiva nei suoi percorsi mentali, e mia moglie lavorava concretamente; purtroppo quando ti ritrovi nelle condizioni psicofisiche dello Schifano di quel periodo, è normale perdere le motivazioni a iniziare la tua opera.
È morto nel 1996.
Il legame tra noi era così forte che doveva diventare il padrino di nostro figlio.
Lei sente lo stress d’artista?
No, sono molto sereno.
Sempre.
Vado in crisi solo al supermercato quando devo scegliere il detersivo. Fermo sempre qualche signora, specialmente adulta, e cerco soluzioni al mistero delle varie marche spiattellate sullo scaffale.
Neanche a Sanremo sente la tensione?
Lì un po’, ma a causa di tutto quello che ti circonda, visi perennemente preoccupati, angosciati, atteggiamenti di panico; quindi lì importo questo benedetto stress.
È tecnologico?
Mica tanto, preferisco la biologia quantica, la fisica quantistica…
Va bene. Piero e Alberto Angela li segue?
Non accendo la televisione da circa vent’anni.
Zero.
Ogni tanto la Formula1, qualche partita di tennis e dei film. Poi basta.
Roger Federer o Rafa Nadal?
Insieme formano due raggi di un bellissimo diametro.
Cosa vuole dalla vita?
Vivere coltivando l’amore per le cose, la curiosità, la passione, veder crescere i figli; vivere senza resistere ai cambiamenti.
(Canta Battiato: “Gesuiti euclidei, vestiti come dei bonzi per entrare a corte degli imperatori. Della dinastia dei Ming…”).