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 2018  agosto 19 Domenica calendario

Selvaggia Lucarelli racconta della madre malata di Alzheimer

Quando mi hanno detto che mia mamma non si trovava più, mi ero appena seduta in una specie di postribolo ficcato in una via polverosa di Ollantaytambo, un paesino di poche anime con delle belle rovine Inca e un treno che va dritto verso la stazione degli autobus ai piedi di Machu Picchu, in Perù. Mi ero appena collegata al wifi zoppicante del locale, quando mi accorgo che mio fratello mi aveva scritto su Instagram: “È sparita la mamma”. Viaggio molto ma raramente sono stata così lontana da casa, per cui la prima cosa che ho pensato è che il luogo che sognavo di vedere da una vita era diventato un carcere. La seconda è “Lo sapevo”.
E qui, perché non pensiate che sia una menefreghista, faccio un salto all’indietro.
La mamma di mia mamma si è ammalata di Alzheimer in età avanzata, quindi conosco il mostro e appena mia madre ha mostrato i primi sintomi di demenza senile l’ho riconosciuto con la sicurezza con cui riconosci il vicino sul pianerottolo. I piccoli blackout, una sua borsa trovata in frigo, ricordi falsati o rielaborati, i “Non mi ricordo” che si fanno più frequenti, una sciatteria nel prendersi cura di sé che non le apparteneva, le amate parole crociate, gli amati libri lasciati a far polvere su un comodino, la sua spiccata curiosità che si assottigliava erano gli indizi che il mostro lanciava come monetine dalla finestra. Mio papà poi si era ammalato da un po’ e tutto quello che c’era di sopito in lei era esploso. L’Alzheimer ha alzato la cresta quando lei ha abbassato la sua. Quando ha deciso che un marito che è stato tuo marito per 50 anni non può stare peggio di te. E se sta peggio di te, meglio vivere senza ricordi.
Noi figli, mia mamma (per come l’abbiamo amata e talvolta detestata) l’abbiamo persa quando lei non ha voluto trovarsi più. Ora, dopo 4 anni dall’inizio della malattia, è nebbia e paura. Sa chi è, sa chi siamo, ha ancora le energie necessarie per litigare con mio padre e sorride molto di sé. Ride delle sue dimenticanze, apprezza che gli altri facciano altrettanto con lei. Qualche tempo fa mi disse che in fondo il fatto che papà sia sordo e lei dimentichi è una buona cosa, che riescono a supplire l’uno alle mancanze dell’altro. Io le risposi “Basta che non vi chiedano se vi ricordate un motivetto” e lei si divertì un sacco, per mezza giornata ripeté al telefono la battuta ai parenti. Poi la scordò. In realtà in questa autoironia non c’è nulla di buono. È il suo maldestro escamotage per ingannare noi e la malattia. Soprattutto noi. La demenza senile (così come l’Alzheimer, che è una forma di demenza) infatti ha una strana caratteristica: amplifica alcuni aspetti della personalità e ne cancella totalmente altri.
Mia madre non ha mai amato stare al centro dell’attenzione, ha sempre detestato chiedere. Il pudore, le paure e il timore dei giudizi l’hanno spesso paralizzata. Ed è per questo – credo – che la malattia in lei ha subito assunto l’aspetto della negazione. “Non ho niente” è stato il mantra con tutti per un po’. Poi, quando i problemi si sono fatti più evidenti, ha cominciato a dire che dormiva poco la notte. Quando l’abbiamo messa di fronte alla necessità di una diagnosi, ha cominciato a inventare incontri con neurologi con conclusioni sempre diverse, perché per mentire tocca avere una buona memoria e lei la memoria non la ha. “Il dottore dice che sono solo stressata”, “Il dottore dice che è un esordio molto molto iniziale di decadimento cerebrale normale alla mia età”, per poi passare a “Ho un tumore al cervello”, che è il suo modo per autoconvincersi che se ne andrà presto. Quando io e mio fratello abbiamo assegnato un nome alla malattia e abbiamo provato ad immaginare scenari e soluzioni (si fa per dire), lei è diventata ostile o vaga. Litiga o esce dalla stanza.
Quest’anno, a Natale, è stata a casa mia per una decina di giorni. Ho scoperto che mia mamma, con l’avanzare della malattia, era diventata silenziosa. Non partecipava più alle discussioni con la vivacità di un tempo, se ne stava defilata e interveniva con prudenza. Era la sua paura di lasciare indizi, di dire qualcosa di stupido o scollegato dalla realtà, di mostrare nuda la sua malattia. L’autoironia fa parte di questo ingenuo piano: ridendo, sdrammatizzo. Minimizzo. Quello che mi accade non è un problema, è cabaret.
Un giorno, sempre a Natale, a colazione mi ha raccontato che la notte era uscita a farsi un giro per Milano. Io mi sono spaventata, le ho detto che non doveva farlo, che era pericoloso. Poi ero andata a controllare la porta, ed era chiusa a chiave, non era mai uscita. Quando le ho spiegato che non era vero, si è offesa e per un po’ non mi ha parlato. Poi si è dimenticata la ragione per cui mi detestava e tutto è tornato come prima.
Ora capirete perché quando ho letto “Mamma è sparita” sul telefono, ho detto “lo sapevo”. Era in Abruzzo, lontana dai luoghi della quotidianità, per giunta in un ospedale per fare una lastra, quindi in un luogo ancora meno familiare. Avrà avuto un blackout, non si sarà ricordata perché fosse lì e il pudore le ha impedito di chiedere aiuto a qualcuno. Negare, sempre. E allora ha cominciato a camminare, si è detta che quegli otto chilometri che la separavano dalla casa delle vacanze li avrebbe fatti a piedi, col caldo di agosto e delle due del pomeriggio. Per un po’ ha percorso la strada giusta, ha fatto quasi due chilometri in un’ora, tante persone l’hanno vista con la gonnellina a fiori e il cappello di paglia, poi ha tagliato per le campagne e infine sì, è sparita.
Da bambina mi ricordo che mia mamma non perdeva una puntata di Chi l’ha visto. Si appassionava alle storie, mi diceva sempre “C’è da diventar matti a non sapere che fine abbia fatto una persona, meglio saperla morta, almeno te ne fai una ragione”. Nelle 24 ore passate dalla sua sparizione al suo ritrovamento ho pensato spesso a quella frase. Perché quando una persona non si trova più, gli scenari razionali sono pochi e quasi tutti catastrofici. “Si è persa” dopo molte ore è una tesi che si affievolisce. Pensi “è caduta in un crepaccio”, “le ha fatto male qualcuno”, “l’hanno messa sotto con la macchina e hanno fatto sparire il corpo”. Ti fai domande sulla sua condizione fisica, su come reggerà la notte, sulla mancanza di acqua in piena estate, sulla sua paura del buio. Contavamo molto sulla sua forza fisica, avevamo il terrore della sua fragilità mentale. Poi, quando i “che fine avrà fatto?” si sono esauriti, mio fratello ha detto “La mamma si vergogna della sua malattia, si sarà rannicchiata chissà dove, lei aiuto non lo chiederà mai”. E così è stato.
La partecipazione è stata tanta, e spesso stordente. Ho scoperto che quando sparisce una persona, escono dal buco personaggi sinistri. Quelli che inventano avvistamenti, i medium. Una tizia mi ha scritto che dovevo cercare in una lavanderia, aveva avuto una visione. Siamo persone razionali e lucide, ma abbiamo capito quanto male possano fare questi avvoltoi a chi è più fragile in momenti di difficoltà.
Mia madre era vicino al ciglio della strada, in una zona collinare abbastanza desolata, a molti chilometri da dove era partita, senza scarpe, piena di punture di zanzara, disidratata e rannicchiata, proprio come aveva intuito mio fratello. Tutto sommato, stava bene. L’ha trovata l’elicottero dei vigili del fuoco che stava battendo quella zona da un’ora. Quando abbiamo chiesto come stesse a chi l’ha trovata, la prima risposta è stata “Bene! Ride e scherza”. E così ha continuato a fare anche in ospedale. Nega, come una bimba. Del resto, quando la cercavamo, sapevamo che lei, la nostra vera mamma, non l’avremmo trovata comunque. Però è tornato a casa quel che di mamma resta: la sua parte ammaccata. E questo ci basta.