il Fatto Quotidiano, 19 agosto 2018
Con la guerra fredda tra Usa e Turchia la Nato è in bilico
Tra Stati Uniti e Turchia è in atto una guerra che apparentemente è solo commerciale ma che è una guerra vera e propria condotta anche e soprattutto con mezzi di guerra psicologica, operazioni di influenza, destabilizzazione, spionaggio. Un tempo sarebbero stati i preliminari di bombardamenti e carri armati. Oggi può continuare fino all’esaurimento delle risorse e alla capitolazione di uno dei contendenti. O di entrambi. Gli Stati Uniti del presidente Trump con la loro forza economica e militare sono i favoriti in ogni pronostico bellico. Ma anch’essi hanno una soglia di capitolazione in termini di fini politici, assetti geopolitici regionali e globali, obiettivi da conseguire e credibilità internazionale.
La Turchia non ha mezzi sufficienti per contrastare la guerra commerciale scatenata dagli Usa. Il presidente Erdogan, come Trump, intende il potere soltanto in termini personali e familiari, ma al contrario di lui ha una lunga esperienza politica. La rotta di collisione tra Turchia e Stati Uniti non è iniziata ieri ma è la conseguenza della politica di Erdogan e del suo partito (Akp) che dal 2001, dopo un iniziale flirt con l’Occidente, si è sempre più qualificato come destra populista, islamista e nazionalista fino a sfociare nell’assolutismo familiare. Il successo di Erdogan viene dal coinvolgimento delle masse periferiche soffocate dal potere militare e oligarchico di Ankara. Fino al 2001 il potere reale era infatti nelle mani dei militari che la Costituzione designava come garanti del kemalismo e della occidentalizzazione. Questa prerogativa ha posto i militari in conflitto con gli apparati politici e governativi e li ha indotti a conservare il potere con periodici golpe armati oppure bianchi e striscianti, in media uno ogni dieci anni. Il militarismo turco è stato un modello per gli americani che coccolavano i generali turchi e ne facilitavano le carriere all’interno della Nato.
Erdogan è riuscito ad aprire un varco nella casta militare con un richiamo alla democrazia e il ritorno ad un Islam più rigoroso. Ciò gli ha permesso di aspirare ad un ruolo egemone in ambito islamico e di garantire ai militari delle fasce più popolari l’accesso ai gradi medio alti della gerarchia. Il collasso del potere kemalista si è consumato con il tentato e fallito colpo di stato del 2016 che, vero o falso, ha consentito ad Erdogan di assumere poteri ancora maggiori con una purga nei quadri militari e nella magistratura.
Come gli Usa, anche la Turchia ha fallito tutte le pretese di egemonia nel quadro mediorientale. È in rotta con Israele, col quale i militari avevano stabilito una forte cooperazione, con l’Iraq, con la Siria e con quasi tutti i Paesi arabi. Ha suscitato la diffidenza dei Paesi fondatori dell’Ue e l’ostilità dei nuovi membri. Le frizioni con la Grecia per le isole dell’Egeo e Cipro si stanno riaprendo. Oggi come ieri i curdi non devono avere alcuna autonomia, né in Iraq, né in Iran, né in Siria e tanto meno in Turchia. E questo è stato un motivo di contrasto con gli Usa da quando Washington (1991-2003) si è schierata con i curdi.
La Turchia non ha alcuno strumento per opporsi direttamente agli Usa. È presente, al fianco o contro gli americani, in tutte le operazioni mediorientali e può scardinare quei pochi punti di appoggio rimasti agli Stati Uniti. Ma non è detto che Trump non desideri proprio questo come exit strategy da una parte del mondo che dà solo guai. La Turchia può invece minacciare gravemente l’Europa con la “bomba migratoria” riaprendo il flusso terrestre e marittimo dei milioni di migranti presenti sul proprio territorio.
L’altra arma della Turchia per mettere Europa e Usa con le spalle al muro è l’attacco al rapporto transatlantico che, in qualità di membro della Nato, può sferrare dall’interno. La minaccia più seria espressa da Erdogan è quella di cambiare alleanza. Pare una via forzata, sia che gli americani stiano costringendo la Turchia ad unirsi alla Russia e all’Iran, sia che la Turchia cerchi un pretesto per andarsene dalla Nato. Il distacco della Turchia non impensierisce Trump che se ne frega della Nato e potrebbe scioglierla o ristrutturarla eliminando o marginalizzando i turchi e gli altri Paesi europei restii a versare il 4 per cento del Pil nelle casse delle industrie americane. Una Nato depurata ed epurata potrebbe finalmente premiare i fedeli paesi baltici, balcanici ed ex-sovietici e lasciare la politica mediterranea nelle mani d’Israele che da tempo chiede di bombardare tutto ciò che gli sta attorno o sui cosiddetti.
La minaccia di Erdogan dovrebbe impensierire la Nato, ma questa preferisce tacere, come ha fatto di fronte alle sparate di Trump all’ultimo summit di Bruxelles. L’isola felice di Natolandia si trastulla con le operazioni aeree e navali nell’Europa del Nord che hanno il solo scopo di mantenere viva la tensione con la Russia. I comunicati stampa danno rilievo all’accesso della Macedonia, al sostegno (a chiacchiere) all’Ucraina e alla Georgia. Il recente studio commissionato dalla Nato al German Marshall Fund di Washington sullo stato del Dialogo del Mediterraneo raccomanda la rivitalizzazione del progetto e si appella al polo della Nato Strategic Direction South a Napoli. Tuttavia la prevista nuova strategia per il sud della Nato è fumosa.
Gli Stati Uniti hanno due sole basi aeree in Turchia (Incirlik e Smirne). Sono già state sottoposte a restrizioni in passato e gli Stati Uniti da tempo ne stanno studiando la ridislocazione. Ma sotto il cappello della Nato in Turchia ci sono altre 22 basi aeree e navali nazionali, il comando delle forze aeree del Sud Europa e un Corpo d’armata di reazione rapida. Inoltre, la Nato schiera in Turchia unità di difesa aerea e missilistica al confine con la Siria, compresi aerei di sorveglianza Awacs, e una unità statunitense di radar antimissile. In pratica però quasi tutte le forze armate turche sono precettate per le operazioni dirette dalla Nato: 640.000 uomini tra Esercito, Marina, Aeronautica, Gendarmeria e Guardia costiera. L’Esercito comprende quattro armate e un corpo d’armata autonomo (Cipro) per 350.000 uomini. La Marina dispone di 132 navi da combattimento, 14 sommergibili e 42 velivoli, l’Aeronautica ha oltre 600 velivoli. La Nato ritiene che una eventuale minaccia esterna che richieda la difesa armata collettiva (art.5) sia probabile soltanto in Turchia. Un cambiamento di alleanza turco creerebbe una falla enorme nel sistema difensivo della Nato: i Paesi del Caucaso rimarrebbero isolati e quelli balcanici scoperti. Gli sforzi trentennali di allargamento a est della Nato sarebbero vanificati. Sul fronte mediorientale si formerebbe un blocco politico-militare costituito da Russia, Turchia, Iran, Iraq e Siria che, attraverso i collegamenti con Libano e Palestina isolerebbero ulteriormente Israele impedendogli di svolgere il ruolo di sceriffo mediterraneo assegnato dagli Stati Uniti.
Trump e la Nato sembrano non darsene pensiero: o sanno che la minaccia russo-iraniana è irrealistica e allora stanno truffando gli alleati ai quali chiedono soldi o aspettano un miracolo. In ogni caso dovranno scendere a patti con la Turchia. L’Europa conosce i rischi ma dipende dalla Nato e aspetta, mentre la finanza europea è già in sofferenza. La Russia vede lo spiraglio di accesso ai mari caldi ma non intende avviare una nuova guerra fredda e aspetta. Erdogan è pronto a contrattare, ma aspetta mentre il Paese si sta dissanguando. La soglia della capitolazione è prossima per tutti.