il Giornale, 19 agosto 2018
Anche gli animali devono elaborare il lutto
Ha portato il suo piccolo sulla testa per 17 giorni, prima di lasciarlo andare al suo elemento naturale: il mare, che lo ha raccolto nel suo scrigno. Finalmente l’orca, denominata J 35 dai ricercatori del centro di San Juan (un rcipelago che si trova nello stato di Washington), si è convinta che non c’era più nulla da fare e chi la seguiva, in questo suo ostinato gesto di disperazione, ha tirato il fiato. I cetacei che assumono questi comportamenti possono perdere l’appetito fino a rischiare la vita. La popolazione di queste orche del Sud è ad altissimo rischio di estinzione: ne restano solo 75 e ogni soggetto è prezioso.
La fotografia dell’orca con il suo piccolo sul capo ha fatto il giro del mondo commuovendo milioni di persone. Per fortuna J 35, ha poi ripreso a mangiare i salmoni Chinook, forniti dai ricercatori e divenuti essi stessi rari, che rappresentano il suo cibo preferito. La causa dell’estinzione di questi splendidi cetacei potrebbe essere legata proprio alla diminuzione dei salmoni selvaggi, così come al rumore, per loro assordante, dei sonar che scandagliano il mare alla ricerca dei banchi di pesci.
Racconta al Guardian Robin Baird, un ricercatore, che qualche anno fa stava esplorando il mare al largo dell’isola di San Juan quando ha visto un’orca che si comportava in modo strano. Di solito questi cetacei vivono in gruppo, ma questa era sola con un piccolo di sei anni che la seguiva e un neonato morto in bocca. Chiamati alcuni colleghi, l’ha seguita per oltre sei ore, poi le condizioni del mare l’hanno portata al largo dove l’ha persa di vista. Molti ricercatori hanno riportato avvistamenti simili di cetacei che trasportano resti dei loro piccoli, ma non sanno di preciso il perché. Melissa Reggente, una biologa italiana, lo stesso Baird e altri scienziati stanno valutando una possibilità intrigante: questi animali, intelligenti e socievoli, sarebbero in lutto.
«Ho passato gran parte della mia carriera a studiare mammiferi sociali – afferma Baird – e, in casi del genere, il comportamento degli animali verso la morte prematura della loro prole sarebbe difficilmente spiegabile al di fuori dell’esibizione di un sincero dolore».
Per coloro che considerano la consapevolezza della morte un tratto umano, l’idea che altri animali ne siano coinvolti può essere difficile da immaginare. In effetti, alcuni scienziati rimangono scettici, ma un numero crescente sta sfidando il monopolio della nostra specie sul dolore per una perdita e sono ormai identificati comportamenti di lutto non solo nei cetacei, ma in elefanti, giraffe, scimpanzé e altri primati e, probabilmente in tartarughe, bisonti e uccelli.
«Gli animali vivono nel presente e risolvono i loro problemi con l’istinto di sopravvivenza». Per secoli ha dominato questa teoria quasi robotica che, negli ultimi decenni è stata smantellata da ricercatori coraggiosi nell’andare controcorrente. Nel 1972 l’antropologa Ursula Cowgill riferì che due piccoli primati in cattività, che lei descriveva come «depressi», mettevano da parte il cibo per un compagno defunto, anche a rischio di morire di fame. Intorno alla stessa ora, in Tanzania, Jane Goodall osservò come un giovane scimpanzé di nome Flint smise di mangiare e diventò scarno e apatico dopo la morte di sua madre Flo. È defunto un mese dopo. «Il suo intero mondo ruotava attorno a Flo – scrisse la primatologa – e con lei sparita, la vita era vuota e priva di significato».
Anche un’orca «assassina» può forse insegnarci a piangere i nostri cari che se ne sono andati per sempre.