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 2018  agosto 19 Domenica calendario

In morte di Kofi Annan

Vittorio Zucconi per la Repubblica


Era nato nella terra degli schiavi, la "Costa D’Oro", miniera per secoli di metalli preziosi e di oro nero umano per i colonialisti europei. Sarebbe arrivato, primo figlio dell’Africa profonda, al timone di quella meravigliosa, indispensabile illusione chiamata Nazioni Unite. Kofi Annan, scomparso ieri nell’asettica solitudine svizzera di Berna, è stato, più di ogni altro Segretario generale dell’Onu il portatore delle grandi speranze e della spossante impotenza di quel grattacielo a Manhattan. Fu, più di altri segretari generali, l’uomo che perse la pace.
Diceva di sè, semischerzando, che il suo cognome "Ànnan" suonava in inglese come "cànnon" e la sua vita di diplomatico, di mediatore, di portatore di pace a mani vuote sarebbe stata costantemente accompagnata dalla colonna sonora di cannonate, guerre e massacri che la sua opera non avrebbe mai fermato. Nel 1993, quando il predecessore Boutrus-Boutrus Ghali lo scelse come responsabile dei Caschi blu, neonata forza di pace sotto le bandiere Onu, grande fu l’attesa per un ruolo muscolare delle Nazioni Unite nei conflitti: e dunque enorme il disincanto di un fallimento consumato dalla Somalia al Ruanda, dai Balcani all’Iraq. Annan, battezzato come tanti figli della sua gente con il nome del giorno della settimana nel quale era nato — Kofi significa venerdì — si era liberato dalla servitù oscena del colonialismo europeo insieme con la Costa d’Oro britannica divenuta Ghana indipendente, ma sarebbe rimasto prigioniero della maligna oppressione degli interessi opposti dei nuovi potentati che da 70 anni paralizza l’Onu.
La sua vita di uomo era stata un lungo e costante cammino lungo il lato luminoso della forza. Nato da buona famiglia nella colonia britannica che i bianchi spolpavano di ricchezze, allevato dalla migliore scuola di missionari Metodisti, universitario prima in Africa e poi al Mit di Boston, Annan era un predestinato della nuova generazione di giovani leader africani occidentalizzati. Nello charme sempre elegantissimo e poliglotta della sua piccola figura in completi di taglio italiano, sposato prima con una ricca signora ghanese che gli avrebbe dato due figli e poi con una funzionaria svedese dell’Onu che gli avrebbe portato in dote una terza figlia, era l’incarnazione di un nuovo mondo globalizzato, dove origini, nome, colore sembravano finalmente contare meno del merito e della preparazione: un mondo culminato con l’elezione alla presidenza americana di Barack Obama, fino al prepotente ritorno del razzismo nelle democrazie atlantiche, oggi travestito da sovranismo.
Ma quanto più grandi furono le promesse, tanto più piccoli apparvero i risultati. Un pezzo dopo l’altro il castello di ghiaccio sorretto dalla Guerra Fredda in ogni continente cominciò a sciogliersi e frantumarsi, in iceberg e crepacci sempre più sanguinosi. Fallì nel massacro di Mogadiscio la missione Somalia.
In Ruanda, dove il comandante canadese dei Caschi Blu aveva disperatamente chiesto al Palazzo di Vetro l’ok per un’azione preventiva senza ottenerlo, partì la strage di un milione di innocenti. Nella Jugoslavia devastata dalle forze centrifughe dell’odio etnico represso a lungo, dovette acconsentire all’intervento della Nato per 78 giorni di bombardamenti che spezzarono l’assedio del Kosovo e il regime di Milosevic, all’insegna di quello che lui stesso avrebbe poi dovuto teorizzare, l’"intervento umanitario" e la violazione della sovranità politica per salvare vite.
Nel 2001 gli arrivò la puntuale e micidiale assegnazione del Nobel per la Pace, che non perdona gli insigniti. Subito dopo gli americani, che lo avevano di fatto imposto alla Segreteria Generale nel 1997 rovesciando il favorito dei francesi, l’egiziano Ghali, lo abbandonarono quando cercò invano di opporsi alla follia bushista dell’invasione dell’Iraq come consegueza dell’attacco alle Torri gemelle. Dopo anni camminati sul lato luminoso della forza, tentò di raggiungere il lato oscuro, arrivando a incontrare Saddam Hussein, il Grande Satana del momento, a fumare sigari con lui, a stringergli la mano, a convincerlo ad accettare quelle ispezioni internazionali che, sperava, avrebbe convinto Bush, Cheney, Rumsfeld e Powell che Bagdad non possedeva più armi di distruzione di massa. Kofi Annan riuscì a non dare a Bush il sigillo dell’Onu per l’invasione, ma non a impedirla.
Sarebbero, puntuali, partiti scandali e rivelazioni, la più grave quella contro il figlio coinvolto nel caso "Oil for Food", il programma dell’Onu che consentiva a Hussein di esportare greggio, ma solo per comprarsi cibo: alla fine l’inchiesta si limitò a censurare la sua mancata supervisione.
Seguirono altri sussurri di corruzione e malefatte, incluse denunce per molestie sessuali, mentre attorno al Palazzo di Vetro crescevano lo scetticismo e via via l’indifferenza, oggi l’ostilità, di un’America e di un mondo sempre più spaventati e provinciali, quindi allergici a utopie di governi sovranazionali e autorità globali.
Kofi Annan avrebbe trascorso i 12 anni dopo la fine dell’incarico nel 2006, scrivendo e lavorando per ricostruire la propria immagine e il senso della propria missione incompiuta, mentre l’Onu sta ripiombando nella sua marginalità. Come prima di lui aveva fatto il suo precedecessore Dag Hammarskjöld, aveva creduto nell’Onu e provato a renderla uno strumento efficace di pacificazione: come Hammarskjöld, morto in un misterioso incidente aereo, non poteva che fallire. Dovette vederlo di persona, il crollo della speranza, quella mattina dell’11 settembre 2001. Dagli uffici in cima al grattacielo di Oscar Niemeyer a New York si vedevano con chiarezza le colonne di fumo alzarsi dal World Trade Center.


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Anna Guaita per Il Messaggero
Prima che Barack Obama diventasse il più potente afroamericano del mondo, la posizione più elevata mai raggiunta da un uomo di origini africane era stata la direzione delle Nazioni Unite. Nel 1997, con l’appoggio della presidenza di Bill Clinton, il nobile Kofi Annan diventava il settimo segretario generale dell’Onu. Kofi, un elegante diplomatico del Gahana, succedeva all’egiziano Boutros Boutros-Ghali.
Eletto e poi rieletto per un secondo mandato, premio Nobel per la pace nel 2001, Kofi Annan è stato definito «la coscienza del mondo». E quando ieri è giunta la notizia della sua improvvisa morte, a 80 anni, la reazione internazionale è stata di stupore e dolore. In tutte le capitali espressioni di cordoglio si sono succedute per l’uomo che l’attuale segretario dell’Onu, Antonio Guterres, ha definito «uno statista di portata mondiale, un appassionato internazionalista che per tutta la vita ha combattuto per una società più equa e pacifica». Kofi Annan lascia la moglie Nane e tre figli, Ama, Kojo e Nina. E lascia un’eredità complessa. Lui stesso aveva fatto dei mea culpa, e aveva ammesso gravi errori. Ma tutti hanno riconosciuto che Annan ha avuto un merito che oggi scarseggia nel mondo politico: ogni volta che ci sono state inchieste su sue possibili scorrettezze, si è reso disponibile per le indagini e non ha nascosto niente. Il più imbarazzante di questi fatti riguarda il petrolio per cibo (food for oil), il programma con cui l’Onu permise che l’Iraq soggetto a sanzioni vendesse il proprio petrolio per comprare prodotti urgenti per la normale popolazione. Ci furono accuse proprio ad Annan, sospettato di essersi avvantaggiato di questo programma. Un’indagine esterna all’Onu rivelò che lui non si era macchiato di nessuna colpa, ma uno dei sui figli aveva fatto affari ai confini della legalità sfruttando il programma Onu.
Le sue difficoltà più gravi risalgono all’epoca precedente alla sua ascesa al segretariato. Nella sua veste di capo delle attività di Peacekeeping, Annan si trovò a fronteggiare due dei più gravi fallimenti dell’Onu: il genocidio del Ruanda, del 1994, quando oltre 500 mila Tutsi vennero uccisi dai rivali Hutu, e il massacro di Srebrenica, del 1995, quando 8 mila musulmani bosniaci vennero uccisi dalle falangi serbe. In tutti e due i casi, i caschi blu dell’Onu non ebbero il mandato di fermare con la forza i massacri. Quando poi Kofi divenne segretario generale, chiese due inchieste e riconobbe i gravi errori commessi, anche suoi (nonostante il via libera dovesse venire non da lui, ma dal Consiglio di Sicurezza, che lo rifiutò). Kofi Annan era stato il candidato voluto dagli Usa, ma nel 2003 si inimicò Washington, rifiutandosi di approvare la guerra di Bush contro l’Iraq. Lui stesso era stato l’artefice di accordi con Bagdad, perché gli ispettori avessero accesso al Paese e controllassero che non c’erano armi di distruzione di massa. Credendo agli ispettori, Annan si oppose alla guerra, che definì «illegale». Poi finì per odiarla anche di più, quando il suo braccio destro e carissimo amico, Sergio Vieira de Mello, vi perse la vita in un bombardamento. Kofi Annan ha continuato quel suo lavoro di negoziatore anche dopo l’Onu. È entrato nel gruppo The Elders, creatura di Nelson Mandela, e ha girato il mondo facendo da arbitro. Fra le altre cose, ha contribuito a portare la pace in Kenya, dopo una guerriglia nel 2008 in seguito a elezioni contestate.