Corriere della Sera, 19 agosto 2018
Il genero di Nasser era una spia
Il 5 ottobre 1973 cinque palestinesi vengono arrestati dalla polizia in un appartamento di Ostia. Da un armadio saltano fuori due missili Sa-7 di fabbricazione sovietica, avvolti nei tappeti che erano serviti per trasportarli in treno da Roma: i terroristi intendevano usarli per abbattere un aereo della El Al in decollo da Fiumicino, nell’imminenza dello scoppio della guerra del Kippur. Come avevano fatto gli agenti italiani a sapere dell’attentato in preparazione e a sventare una strage? Risposta facile: furono informati dal Mossad.
Quel che però è rimasto nell’ombra per decenni è l’origine della «soffiata»: una spia al servizio degli israeliani capace di rivelare i segreti del regime egiziano, allora il nemico più temibile dello Stato ebraico. Ashraf Marwan – questo il suo nome – non è stato un informatore qualsiasi. Il Mossad – con il governo di Gerusalemme – lo ha considerato «l’agente più prezioso della storia», l’uomo cui si deve (probabilmente) la sopravvivenza di Israele. A raccontare la sua incredibile vicenda è, in un agile saggio pubblicato da Einaudi (La spia che cadde sulla terra), lo storico Ahron Bregman, docente al King’s College di Londra, diventato casualmente suo amico tanto da entrare lui stesso negli eventi che portarono alla sua morte nel 2007.
Nato nel 1944 in una famiglia della media borghesia cairota, Ashraf Marwan salì rapidamente – ma non senza inciampi – i gradini del potere sposando Mona, la figlia più bella e prediletta di Gamal Abdel Nasser che, peraltro, non ebbe mai simpatia per quel genero «farfallone e inaffidabile». Ma dopo la morte del raìs, e l’ascesa del suo vice, Anwar Sadat, le cose cambiano rapidamente. Chiamato al fianco del nuovo presidente in «quota» della famiglia Nasser, Marwan nel 1970 contatta l’ambasciata israeliana a Londra, offrendo i suoi servigi.
Se nei film le spie sono uomini (e donne) freddi, spietati, calcolatori, nella realtà – almeno quella raccontata da Bregman – emergono caratteri ben diversi. Intanto, da principio l’agente del Mossad che risponde per primo al telefono non riconosce il suo interlocutore e se lo lascia scappare. Marwan deve chiamare più volte prima di essere preso sul serio per la casuale presenza a Londra di due importanti funzionari del Mossad che ben sapevano chi fosse il «genero di Nasser». Cominciò così, nella diffidenza reciproca, il rapporto tra l’alto esponente del governo del Cairo e la struttura spionistica considerata la più efficiente al mondo. La spia che cadde sulla terra, per quasi trent’anni, rivelò piani e segreti capaci di spiegare e prevenire le mosse egiziane. Come l’attentato di Roma: voluto da Gheddafi in rappresaglia per l’abbattimento di un jet libico finito per errore sullo spazio aereo israeliano, fu prima organizzato dallo stesso Ashraf Marwan (fu lui a consegnare i missili ai palestinesi) e poi sventato grazie alle sue tempestive soffiate. Ma la spia fu in grado di avvertire il governo di Golda Meir dell’imminenza dell’attacco congiunto di Egitto e Siria (6 ottobre 1973) e, soprattutto, riuscì a fornire i piani di battaglia dell’esercito del Cairo così da consentire il contrattacco del generale Sharon e la sconfitta finale degli eserciti arabi.
Resta da capire perché lo fece e come gli accadde di cadere dalla finestra del suo appartamento nel centro di Londra, il 27 giugno 2007, quando era ormai soltanto un ricco uomo d’affari che trafficava con immobili e armi. Alla prima domanda prova a rispondere Bregman, riportando la sua versione («dopo la Guerra dei sei giorni, del 1967, voleva essere dalla parte dei più forti») e immaginando che le ragioni fossero più semplici: bisogno di denaro, semplicioneria, desiderio di rivalsa. Alla seconda è ancora oggi difficile dare un senso: un’inchiesta ufficiale britannica si concluse senza una chiara versione dei fatti, omicidio e suicidio erano entrambi opzioni possibili. Certo, la «caccia» di cui era stato oggetto da parte dello storico israeliano non lo aveva aiutato: con il suo nome reso pubblico, era diventato inevitabilmente un «morto che cammina».