Corriere della Sera, 17 agosto 2018
Perché ci manca lo Stato
C’è un elemento decisivo che lega insieme e in parte spiega le sciagure dell’estate italiana: dal crollo del ponte a Genova al rovinoso tamponamento del Tir sull’Autosole, alla strage dei braccianti immigrati sulle strade della Puglia. Un dato che va ben al di là di questi episodi pur di per sé gravissimi, e del quale portano una pesante responsabilità le forze che hanno governato il Paese negli ultimi vent’anni (dunque anche la Lega, oggi forse impegnata a cambiare il suo stesso passato e a farlo dimenticare). Si tratta dell’indebolimento – fino alla sua virtuale scomparsa – della presenza dello Stato, e quindi del venir meno di una sua funzione essenziale: quella del controllo e della sanzione.
«Autostrade per l’Italia» ad esempio può fare da anni ciò che le piace – guadagnare a dismisura senza reinvestire – perché nessuno si è mai presa la briga di controllarla. Così come da anni le forze sempre più esigue della Polizia stradale non ce la fanno a monitorare adeguatamente il settore dei Tir in furiosa espansione, a controllare il rispetto dell’orario di lavoro degli autisti, a controllare l’adozione da parte degli automezzi degli appositi dispositivi di sicurezza. Egualmente, da anni gli Ispettorati del Lavoro e le forze dell’ordine del Mezzogiorno, in particolare della Puglia e della Calabria, sembrano avere in pratica alzato bandiera bianca.
Essersi arresi di fronte ai proprietari agricoli sfruttatori e alle organizzazione di «caporalato», gli uni e le altre lasciati libere di fare i loro comodi.
È noto che quanto a rispetto delle leggi gli italiani hanno sempre lasciato a desiderare. Ma ormai l’abitudine a questa assenza diffusa di controlli e di sanzioni, a questa crescente impunità, stanno diventando anima e sangue di un’antropologia nazionale che diventerà presto irrecuperabile. Stanno originando un’atmosfera sociale marcia che rischia di fare dell’Italia un Paese assolutamente anomalo nell’ambito dell’Europa occidentale.
Di fatto sono interi pezzi di questo Paese che sfuggiti a ogni controllo ormai vanno per conto loro. Se qualcuno chiede di entrare nei dettagli c’è solo l’imbarazzo della scelta, dal piccolo al grande. È altissimo, ad esempio, il numero delle automobili circolanti senza assicurazione e di automobilisti senza patente, degli appalti pubblici truccati, degli artigiani che non rilasciano la ricevuta fiscale, dei Bed & Breakfast e delle case vacanze non registrate e illegali, delle contravvenzioni non pagate, di coloro che specie a Roma e nel Sud evadono la tassa sui rifiuti e viaggiano sui mezzi pubblici a sbafo, di coloro che assumono in nero e non pagano i contributi assicurativi, che ricevono pensioni per invalidità inesistenti, di coloro che se si tratta di pagare il ticket sanitario o di iscriversi all’università risultano nullatenenti o quasi perché evadono le tasse, che violano le norme edilizie e sulla tutela del paesaggio. Mi fermo qui per non annoiare chi legge, che comunque ognuna di queste cose le sa benissimo da sé.
Intendiamoci, i fenomeni appena detti sono sempre esistiti, anche se un tempo avevano dimensioni assai meno imponenti. Appaiono oggi cresciuti a dismisura per la semplice ragione che sono molti anni che in Italia lo Stato e le amministrazioni pubbliche non ritengono più un loro compito essenziale far osservare la legge, e si sono quindi abituati a esercitare una sorveglianza sempre più casuale e svogliata.
A questa dimissione dello Stato dalla sua funzione di guardiano delle leggi e delle regole ha contribuito in misura decisiva la rottura, avvenuta per effetto della crisi del ’92-’94, del delicato equilibrio tra Politica e Società che storicamente aveva fino ad allora caratterizzato l’Italia. Dove la Politica – guidata da ristrette élite nazionali colte e selezionate, e padrone dello Stato sebbene in posizione di oggettiva debolezza – soprintendeva a una Società percorsa da «animal spirits» impetuosi ma voraci, nel suo complesso rozza e ineducata, sede di potenti organizzazioni malavitose, perlopiù localistica, animata da forti istinti appropriativi. In questa situazione la legalità e il rispetto delle leggi hanno obbedito molto a lungo a una sorta di mediazione più o meno esplicitamente contrattata tra Politica e Società. Tanto più quando con l’avvento della democrazia la ricerca del consenso elettorale provvide negli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso a spostare sempre più a favore della seconda i rapporti di forza.
La crisi di «mani pulite» li rovesciò bruscamente e definitivamente, assegnando finalmente il primato alla Società. Con il concorso di altri fattori: soprattutto grazie alla contemporanea affermazione in tutto il mondo occidentale di un’ideologia antistatalista e alla delegittimazione radicale della politica, dei suoi strumenti e apparati, che anche per questa via ne seguì.
Il successo elettorale di Berlusconi segnò il clamoroso rovesciamento di posizioni che duravano da un secolo: fu l’ingresso massiccio della Società nella Politica, anzi il suo prevalere su di essa. Molti (in parte anche chi scrive) s’illusero che quella vittoria potesse portare un necessario soffio di rinnovamento all’insegna del liberalismo. Invece essa volle dire l’inizio della subordinazione dello Stato e delle sue regole alle necessità tutte privatistiche della Società italiana, incarnata dal suo rappresentante forse simbolicamente più significativo. E da allora in un modo o nell’altro le cose non sono più cambiate. Complice da un certo punto in poi anche la carenza delle risorse pubbliche, la Politica, lo Stato e il controllo sul rispetto sulle regole hanno compiuto una progressiva ritirata. Una ritirata che paradossalmente ma non troppo ha il suo aspetto più evidente nella condizione della giustizia italiana. Amministrata da una magistratura priva di vero prestigio pubblico (non ingannino i salamelecchi di facciata), divisa in sette ideologico-politiche organizzate per distribuirsi gli incarichi di maggior pregio, afflitta da personalismi ed esibizionismi, oberata da una mole di leggi inutili e sbagliate fatte perlopiù con il tacito consenso dei magistrati, è una giustizia che non riesce a mandare e far restare in prigione che i poveracci, è una giustizia che lascia alla lunga praticamente sempre impuniti chi ha commesso i reati che commettono i ricchi e i potenti. Vorrei sbagliarmi, ma se sedessi ai vertici di «Autostrade per l’Italia» credo proprio che continuerei a dormire sonni tranquilli.