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 2018  agosto 17 Venerdì calendario

Cos’è la blockchain (c’è molto di più delle criptovalute)

Si sente sempre più spesso parlare di blockchain, di criptovalute, di token in vari ambiti ma spesso non è sempre chiara a tutti la differenza tra questi termini. Non ne è noto il significato, che cosa sono, il motivo della loro esistenza, la loro utilità presente e, ancor di più, la loro potenzialità futura.
Partiamo dalla terminologia: la blockchain è una tecnologia, un sistema, una soluzione per realizzare delle cose; i token sono il risultato dell’applicazione di questa tecnologia; le criptovalute sono un’applicazione di questo oggetto (soltanto una delle tante, teniamolo bene a mente). Possiamo vedere la blockchain come se fosse un modo per lavorare l’argilla, il tornio che ruotando ci consente di dargli forma; i token sono il vaso che andiamo a realizzare e le criptovalute sono l’applicazione di quel vaso come recipiente o come oggetto ornamentale. In concreto la blockchain sfrutta la possibilità di distribuire tra più soggetti dei pezzi di informazione in maniera concatenata tra loro in modo che tutti possano essere funzionali l’un l’altro. Che significa questo? Immaginiamo una chiave: se ho l’unica di accesso ad una casa questa è unicamente mia, se ne dò una copia ad un altro diventa una casa condivisa. E se lascio la chiave nella serratura diventa luogo pubblico. Se ora immaginiamo che la stessa chiave sia una password divisa a pezzettini distribuiti tra più soggetti, ecco che abbiamo dato la possibilità di creare un’utilità collettiva: i soggetti possono condividere il valore di un contenuto, possono regolarsi vicendevolmente ed il singolo pezzetto prende valore insieme agli altri con un moltiplicatore di sicurezza che cresce con il numero di pezzettini in cui la password è stata frazionata e distribuita. Questo semplice concetto è il cuore della blockchain: la possibilità di frammentare delle informazioni che non hanno valore se non concatenate alle altre ci può consentire ad esempio di fare un contratto in cui solo tutti i contraenti (i possessori di tutti i pezzettini) possono apportare modifiche; oppure ci può consentire di aprire una porta soltanto se tutti i proprietari del contenuto sono d’accordo, o di legare tra loro i beneficiari di un’eredità. E così via. Ancora: la concatenazione di questi pezzi di informazione (informaticamente parti di codici: ecco i nostri token!) ci può consentire di avere azioni automaticamente realizzabili a condizioni prestabilite. Come il pagamento di un premio al verificarsi di un evento. Ma potremmo elencare esempi molto a lungo, sbizzarritevi.
Riguardo alle criptovalute, una tra le prime applicazioni è stata la contabilizzazione di transazioni, ovvero la possibilità di scrivere passaggi tra soggetti come in un virtuale libro mastro con la certezza dell’impossibilità del singolo soggetto di cambiare né sovrascrivere ogni transazione. È insomma la possibilità di certificare le transazioni dando una forma di garanzia del valore sottostante. È una sorta di evoluzione della specie: dal baratto – che aveva limiti in ragione degli ingombri ciò che si voleva scambiare – si è passati alle monete, per arrivare alla carta ed alla moneta elettronica. Monete sempre più leggere ed immediate ma anche prive di valore intrinseco, visto che la loro forma di sicurezza (il re o la regina che aveva l’autorità di emetterla e poi la riserva di oro nelle casse della banca centrale) si è trasformata nella credibilità dello stato o degli insiemi di stati che stanno alle spalle della valuta stessa, nonché nella tecnologia con cui viene creata che ne rende in diversi gradi difficile la falsificazione. Da qui l’immediata intuizione che i token possano essere garantiti dall’insieme di tutti gli utilizzatori stessi e che la possibilità di concatenarli sia un elemento più solido di qualsiasi altra tecnica di anticontraffazione.
Ecco le criptovalute, dunque: monete virtuali fatte di pezzi di codici criptati. Il nostro tornio (la blockchain) ha realizzato un vaso (i token) per contenere qualsiasi cosa di valore (le criptovalute stesse). E dunque: sarà davvero questa la moneta del futuro? E perché non lo è già? Belle domande dalle difficili risposte. Spesso le innovazioni non trovano la principale diffusione nell’idea per cui sono state realizzate: usiamo i laser per curare le rètine oculari e non per disintegrare nemici, usiamo gli obiettivi frontali dei nostri smartphone per farci selfie e non per le videochiamate per i quali sono stati ideati. In più la mia inguaribile propensione alla semplificazione mi fa pensare che – senza addentrarci in teorie e dietrologie diffuse in Rete – sono le piccole cose che hanno cambiato il corso delle innovazioni, le loro diffusioni, persino condizionando la Storia. E non bisogna essere dei guru del marketing per rendersi conto che suoni come block, chain, cripto e token non aiutano la confidenza, né tantomeno richiamano immediati istinti di fiducia e trasparenza.
Le parole sono importanti, diceva anche un famoso regista. Chissà cosa sarebb stato per esempio se i telecomandi si chiamassero infrarossi. O se il genio di Steve Jobs non avesse sintetizzato il concetto di deposito informativo remoto on-demand nel fantastico cloud (nuvola!). Chi si sarebbe fidato di a mettere in quelle mani tutti i propri dati e segreti? D’altronde abbiamo ripetuti esempi di valute elettroniche non emesse da istituzioni centrali che ci hanno consentito di acquisire beni o diritti: i punti fedeltà dei nostri abituali supermercati ad esempio, seppur supportati da una tecnologia ben anteriore (ed inferiore) alla blockchain. Però si chiamano – è un esempio – semplicemente Punti Fragola, e sono entrati nelle nostre case rendendo chiunque tutt’altro che scettico a scambiarli con il pane quotidiano.