17 agosto 2018
In morte di Aretha Franklin
Stefano Pistolini per Il Foglio
Con Aretha Franklin ancora in vita, erano già cominciate le celebrazioni per la sua morte. Avvenuta oggi, a 76 anni. Promettevano già, le celebrazioni, di diventare un affare importante, un momento di compattamento, commozione e perfino mobilitazione nel cuore della famigerata éra Trump (quale epitaffio tuitterà Donald? Ci saranno provocazioni ai funerali?).
Perché quella che Aretha ha incarnato – in un crescendo esponenziale con l’aumentare del dato anagrafico – è l’Altra America, adesso sconfitta e defenestrata, quella progressista e sognatrice che accomunava diseredati e radical chic, quella della presidenza Clinton (Aretha cantò “I dreamed a dream” per la sua vittoria nel 1993) culminata col doppio mandato Obama (Aretha cantò “My Country ’Tis of Thee” per la sua vittoria nel 2009, ma più della performance passò alla storia il cappello sotto il quale si presentò), adesso smobilitata dall’arrivo dei nuovi barbari.
Ovvio che il pericolo di passatismo aleggi pesantemente su questa malinconica vicenda. Che il prevalere del “come eravamo” dei baby boomers li spinga ora a investirsi una volta di più dell’aura di generazione-guida, in questa epoca di frustrazione. Ma, del resto, è lo stesso il materiale rappresentativo dei giorni precedenti a dettare il futuro svolgersi degli eventi: da un lato la processione di omaggianti star afroamericane (Stevie Wonder, Jesse Jackson, Al Sharpton) che le hanno reso omaggio nella sua casa di Detroit, dove si era deciso trascorresse le ultime ore circondata dai familiari; dall’altro chi, come Beyoncé e Jay-Z le hanno dedicato l’ultimo concerto o chi, come Bill Clinton si è affidato ai media digitali: “Io e Hillary abbiamo pensato ad Aretha ieri sera, ascoltando la sua musica e ricordando quanto sia stata importante negli ultimi 50 anni della nostra vita”. La mobilitazione, insomma, era in pieno allestimento: una colossale onda di emozione si è sollevata attorno all’annunciatissima dipartita della donna di colore che ha saputo alzare l’asticella della dignità per quelle come lei, e che ha acceso scintille inattese nella mente di tante sorelle ai quattro angoli del mondo, cantando “Respect”, “Natural Woman”, “Chains of Fools” e “Think”, tutte registrate ai vecchi Atlantic Studios nel momento magico a fine dei Sessanta. C’è di mezzo tutto quanto corre dal primo manifestarsi di questa ragazzina prodigio, dotata di una voce che ne faceva già a 15 anni la “Queen of Soul” sotto la severa guida di un padre, il reverendo. C. L. Franklin, che si stava affermando come uno dei più famosi predicatori carismatici dell’epoca, fino alle cronache di queste ore in cui Omarosa Manigault Newman, ex impiegata della Casa Bianca ed ex concorrente di “The Apprentice”, lo show tv di Donald Trump, pubblicizza “Unhinged” il suo libro-scandalo sulla mala condotta del presidente usando un puro linguaggio-Franklin: “Quell’uomo non ha alcun rispetto per le donne e per i neri”. Respect, appunto.
Aretha è la presenza immanente di lunghi decenni americani, come potremmo dire da noi vale per De Gregori o Vasco. E’ stata insignita della prestigiosissima Medaglia presidenziale per la Libertà, ha vinto 18 Grammy, ha venduto 75 milioni di dischi, prima donna nominata nella Rock & Roll Hall of Fame nel 1987, nel 2010 nominata da Rolling Stone “la più grande cantante di tutti i tempi”, battendo Ray Charles, Elvis e John Lennon. Mica bruscolini.
Eppure Aretha non è mai stato un personaggio facile, docile, accessibile: leggendario il suo vizio di cancellare concerti e apparizioni senza preavviso e per capricci che stavano solo nella sua testa (l’ultima apparizione in concerto risale allo scorso novembre, quando ha cantato a Manhattan per la Aids Foundation di Elton John), la sua dipendenza dall’alcolismo, i disordini alimentari, la tormentata vita sentimentale (due mariti e quattro figli, i primi quando era ancora una bambina), il terrore per gli aeroplani (“io lo capisco il Papa, che bacia per terra quando scende dalla scaletta!”), che ne ha sempre limitato le apparizioni lontano dal raggio d’azione del pullman superaccessioriato con cui accettava di spostarsi, la totale idiosincrasia verso i giornalisti, fin dal ’68, quando Time la celebrò come icona nazionale dedicandole la copertina, ma ebbe l’ardire di raccontare che la sua vita privata era a corto di “respect”, con un marito che la maltrattava dentro le mura domestiche. Il ritratto che se ne trae è quella di una personalità problematica, di una vita tutt’altro che serena, di un carattere complicato, di una psicologia irrisolta e bizzosa, spesso risolta sotto forma di ostilità nei confronti di tante colleghe da Roberta Flack a Natalie Cole, da Whitney Houston a Barbra Streisand. Eppure ciò che Aretha ha saputo cantare, il modo in cui l’ha cantato, l’atteggiamento con cui lo ha esposto allo sguardo dell’America (ricordate l’autoritaria cameriera di “Blues Brothers”?) ha stregato una nazione e si è guadagnata la devozione del mondo. Celebrando la sua appartenenza a un secolo che non c’è più, mentre si srotolava la sua interminabile agonia e ora, mentre seguiremo tutti i rituali dell’addio, è impossibile non imbattersi in un messaggio interessante: non è necessario umiliarsi per farsi apprezzare, non serve mascherarsi per piacere. La natura ci crea imperfetti, come Aretha. Ma talento, convinzione e perfino l’ostinazione fanno il resto. Anche se non si può garantire che questi principi siano ancora in vigore.
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Giuseppe Videtti per la Repubblica
Era la regina del soul: in 50 anni nessuna è riuscita a imitarne la voce, immensa, generosa, potente, magnetica. Aretha Franklin è morta ieri per un cancro al pancreas a 76 anni. Nel 2009 si era esibita alla cerimonia d’insediamento di Barack Obama.
Poi un’operazione nel 2010 e il peggioramento negli ultimi mesi: aveva cancellato lo show del 25 marzo, giorno del suo compleanno, a Newark, e quello del 28 aprile a New Orleans. Il 14 novembre avrebbe voluto festeggiare i 60 anni di carriera con uno show. L’ultima volta era andata in scena a New York nel 2017 per la Elton John Aids Foundation, ma negli ultimi anni le sue apparizioni erano molto rare perché non aveva mai superato la paura di volare; per questo è scomparsa dalle scene europee dopo quei mitici concerti di fine anni 60. Ma la fama di Aretha non è legata a un tour o a una canzone, ma a una carriera talmente gloriosa e a un repertorio qualitativamente così alto da non avere rivali nello show business se non in Frank Sinatra.
La rivista Rolling Stone l’ha inserita al primo posto tra i più grandi cantanti di tutti i tempi, per la sua versatile capacità di spaziare in un territorio dove tra pop, jazz, blues, R&B e gospel non ci sono confini. I 18 Grammy (più due alla carriera) che ha ricevuto sono la testimonianza della sua grandezza, insieme ai venti leggendari singoli (14 dei quali hanno realizzato vendite multimilionarie) che ha piazzato in testa alla classifica Usa, dal 1967 con Respect, il suo cavallo di battaglia, un inno femminista e di fierezza razziale, fino a I knew you were waiting ( for me), il duetto inciso nel 1987 con George Michael. Dal 1961, l’anno dopo che Albert Hammond l’aveva scritturata per la Columbia con l’intenzione di trasformarla nella nuova Billie Holiday, Aretha è stata presente 45 volte nei Top 40 Usa e 10 dei suoi album hanno raggiunto il primo posto della classifica R&B, un primato ancora ineguagliato. Persino il lungimirante Hammond di fronte alle sue capacità vocali perse la bussola. Il mondo non voleva un’altra Billie Holiday, un’altra Mahalia Jackson, un’altra Dinah Washington, e Aretha aveva una voce che non assomigliava a nessuna di loro. Nata a Memphis e cresciuta a Detroit, era figlia del Reverendo C.L. Franklin, un carismatico pastore che vendeva milioni di copie dei suoi sermoni registrati su microsolco. Era cresciuta sulle ginocchia di zia Dinah (Washington, la regina del blues); dai Franklin, Sam Cooke, Mahalia Jackson e Albertina Walker erano di casa. Logico che il gospel fosse la sua prima vocazione e l’argomento del suo album d’esordio, Songs of faith (1959). In chiesa aveva appreso l’arte dell’improvvisazione, che metteva a frutto accompagnandosi con il pianoforte. Le sarebbe servito quando, fallito l’apprendistato jazz in casa Columbia, fu scritturata dalla Atlantic e nel 1967 pubblicò il primo di una sfilza di capolavori che per oltre cinque anni avrebbero esaltato il mercato della musica soul e solleticato la fierezza nera. «Non feci nient’altro che portarla negli studi Muscle Shoals, in Alabama, farla accomodare al pianoforte e lasciarla libera di esprimersi», raccontava il produttore Jerry Wexler, scomparso nel 2008, ricordando le prime sedute di registrazione per I never loved a man ( the way I love you), un album con undici classici (tra cui Respect, Save me e Dr. Feelgood), il primo trionfo di Aretha. Mai nella storia della musica leggera le canzoni hanno avuto la credibilità, lo spessore e l’autorevolezza con cui Aretha riusciva a interpretarle.
Mai nessun altro artista è riuscito a parlare d’amore e di sesso con la sua intensa religiosità, mai nessun altro è riuscito a evocare lo spirito con la stessa esuberante femminilità. Sacro e profano, divino e terreno sono gli antipodi dell’ispirazione di Aretha, inscindibili in brani come ( You make me feel like) A natural woman, I say a little prayer, Don’t play that song, Call me e Think, il super hit che avrebbe reinterpretato con eccezionale vigore nel piccolo ruolo che le affidarono nel film The Blues Brothers (1980). Al contrario di molti artisti di colore, che all’epoca rimanevano relegati alle classifiche R&B, Aretha operò con il suo repertorio un fenomenale crossover; sedusse gli amanti della black music e gli hippies, i jazzofili e gli intellettuali (James Baldwin e Langston Hughes nutrivano per lei la stessa venerazione che avevano per Mahalia Jackson e Billie Holiday), il pubblico del rock (che lei blandì con strepitose versioni di Satisfaction, Let it be e Eleanor Rigby) e quello delle discoteche, i leader politici (Malcolm X, Martin Luther King, Bill Clinton) e il popolo che manifestava per i diritti civili. Nel 1970, dopo una sfilza di trionfali concerti in Europa (all’Olympia registrò il superdinamico Aretha in Paris), si esibì al Fillmore West di San Francisco, tempio della generazione dei figli dei fiori e delle band alternative della West Coast. Con un’orchestra fenomenale che comprendeva Billy Preston alle tastiere e King Curtis al sassofono, trionfò per cinque serate consecutive davanti a un pubblico che a malapena conosceva Ray Charles (con il quale cantòSpirit in the dark, come documentato in Live at Fillmore West). Dopo cinque anni di successi clamorosi e di maestose interpretazioni, lasciò che la diva prendesse il sopravvento sulla regina afroamericana che il pubblico aveva adorato. Dopo il 1972 arrivarono le parrucche bionde, gli zibellini, i look eccentrici e le scollature generose inadeguate a una donna con il suo fisico (negli ultimi anni l’obesità era diventata un problema cronico che neanche più i medici di fiducia riuscivano ad affrontare). Ma non ha mai perso lo smalto della grande interprete. Ha affrontato con dignità gli anni della disco (con album prodotti da Luther Vandross) e dell’hip hop, e ha persino sostituito Pavarotti malato nel Nessun dorma ai Grammy. Per mezzo secolo ha sfidato qualsiasi principessa nel regno del soul (da Chaka Khan a Whitney Houston e Mary J. Blige) senza mai cedere la corona.
Emanuele Trevi per il Corriere della Sera
Di un’artista immensa come Aretha Franklin, si può dire che la storia della sua vita e la storia della sua voce sono quasi la stessa cosa, e che raccontare l’una equivale a raccontare l’altra. È una vicenda così complessa e articolata e ricca di trasformazioni, quella della voce di Aretha, da assomigliare molto a un lungo romanzo, non privo di crisi e nuovi inizi che lo rendono anche più avvincente.
Non sono mancate periodiche «riscoperte». Ma è sempre necessario che ciò che si riscopre sia sempre stato lì, intatto nella sua grandezza. Per la mia generazione, credo che l’impatto di un episodio di The Blues Brothers sia stato fondamentale. Freedom, freedom, freedom! Nel 1980, le stelle luccicanti della disco music erano allo zenit del cosmo sonoro. Aretha non aveva ancora compiuto quarant’anni, ma era già un pezzo di storia, la reliquia di un mondo che si faceva distante, frequentato da zii e fratelli maggiori più raffinati. Col passare del tempo, si era arrochita a causa delle sigarette. Nel film di John Landis, interpreta la moglie di Matt «Guitar» Murphy.
Assieme al marito, manda avanti una tavola calda. Quando Jake ed Elwood lo vanno a cercare per rimettere in piedi la vecchia band, Matt obbedisce al richiamo della musica, liberandosi rapidamente del grembiule. Aretha lo affronta: pensa bene a quello che fai! Ed ecco che inizia a cantare una nuova versione di Think, un successo risalente al 1968. La coreografia della scena, con le clienti della tavola calda che fanno da coro spalleggiando Aretha, e la finale partecipazione di John Belushi e Dan Aykroyd, è di una comicità irresistibile. Un’altra caratteristica della vera grandezza è la disponibilità a prendersi in giro. Il senso di quell’inno alla libertà femminile è infatti rovesciato con una scorrettezza che oggi suonerebbe scandalosa. Alla fine Matt, con la custodia della chitarra in mano, se ne va piantando in asso moglie e tavola calda.
Negli ultimi anni, Aretha si era insediata stabilmente fra i mostri sacri che, sopravvivendo al loro avventuroso secolo, si sono affacciati al nuovo millennio portando con sé quella merce sempre più rara e preziosa che in mancanza di meglio definiamo il carisma. Tra tutte le sue apparizioni pubbliche, la diretta televisiva in occasione dell’insediamento di Barack Obama alla Casa Bianca, nei primi giorni del 2009, rimarrà sicuramente nella memoria come un pezzo di storia americana commovente e irripetibile.
Non sono passati nemmeno dieci anni, eppure, a ricercare le immagini di quell’evento su Internet, se ne ricava l’impressione di un’epoca remota, animata da ideali che potevano sembrare eterni, una luminosa mattina d’inverno, e che invece erano già minacciati dall’azione di minacciose forze contrarie. Aretha invecchiando divenne un monumento, ma restò una donna fragile, che aveva vissuto una vita difficile, accumulato ferite. Non prendeva l’aereo, e altre paure più profonde e inconfessabili potevano essere intuite nel fondo dei suoi occhi.
Ognuno in queste ore avrà pensato alla sua canzone preferita. Per quello che vale, la mia è una cover di Simon e Garfunkel, Bridge over Troubled Water. Non posso ascoltarla senza provare l’emozione indicibile che la voce di Aretha ha suscitato, almeno una volta nella vita, in milioni e milioni di persone. È sensibilità condotta all’estremo, senza paura né del dolore né della gioia, è fierezza, è umanità nel senso più pieno della parola. È una voce interamente trasformata in un destino.
Marco Molendini per Il Messaggero
Aretha è diventata Regina del soul in Italia grazie a Bandiera gialla, lo storico programma di Arbore e Boncompagni che cambiò radicalmente il linguaggio radiofonico e segnò profondamente il costume nazionale, facendo lievitare quella che venne battezzata generazione beat. «Accadde questo ricorda Renzo c’eravamo stufati di mettere sempre dischi dei gruppi inglesi, le nostre scalette erano letteralmente dominate dai Beatles, Rolling Stones e succedanei. Da convinto filoamericano - almeno in fatto di musica - mi stupivo che gli Usa non reagissero alla British Invasion. La risposta arrivò e, come speravo, era nera: prima il funk di James Brown con I got you, poi la Motown, quindi altre etichette indipendenti come Stax e Atlantic con Aretha Franklin e la sua Respect, che fu subito un gran successo. Per giorni interi passammo le loro canzoni. A un certo punto la nostra hit parade aveva solo titoli di artisti neri».
Forza di quelle voci e di quel programma.
«A quel tempo c’eravamo solo noi. Eravamo gli unici autorizzati a trasmettere canzoni. Non c’erano ancora le radio private. Io mi ero abbonato alla Billboard Hot 100 e, ogni mese, mi arrivavano dall’America i dieci dischi più venduti: ricordo l’impatto travolgente di Reach out I’ll be there dei Four Tops, ma anche il ritmo dei brani dei Temptations. Era evidente che la musica stava cambiando in tutto il mondo e i neri d’America non avevano per nulla intenzione di restare a guardare».
Nel 1968, il soul sbarcò anche a Sanremo con Wilson Pickett.
«E partì l’ondata italiana con Fausto Leali, il negro bianco».
L’avete mai incontrata Aretha? Lei partecipò, come ospite, anche a un Cantagiro, quello del 1971.
«L’abbiamo incontrata alla Bussola di Viareggio, dove fece un concerto. Andammo Gianni, Raffaella Carrà e io. Ci fu modo anche di farci fare una foto, noi tre con lei».
Fu l’ultima volta che la Queen of soul venne in Italia e in Europa, preda della sua fobia per i viaggi aerei.
«Già, non ha mai più accettato di tornare. Però noi l’abbiamo riascoltata a New York, quando io e Boncompagni andammo un concerto, dove c’erano tutti i più grandi artisti della black music, invitati dalla Rifi, l’etichetta italiana che distribuiva i dischi Atlantic per cui incideva Aretha. Ricordo che da quel momento Gianni diventò un tifoso del rhythm’n’blues e non l’ha più abbandonato. Di quella serata, però, non abbiamo ricordi fotografici, a quel tempo non c’erano i telefonini».
Renzo, è d’accordo? La Franklin è stata la più grande voce di sempre.
«Non c’è niente da fare: in assoluto la più grande. È stata la regina, voce fantastica, gran senso del ritmo. Partita da Dinah Washington, ha costruito uno stile tutto suo, dove è presente in modo profondo la tradizione gospel. Del resto le grandi cantanti nere, anche Whitney Houston, vengono tutte da lì. Aretha è stata imitata da tutti». Anche da noi, in Italia. «Giorgia sicuramente è la più autorevole, per qualità vocale e per passione. Aretha è stata un suo modello assoluto. Ma ci sono ancora oggi cantanti soul nelle discoteche che usano quel repertorio».
A quel tempo si usava far cantare ai cantanti anche in italiano.
«Ricordo che la Rca, che aveva firmato un contratto di collaborazione con la Motown, a un certo punto, mi chiese di scegliere quattro canzoni da tradurre e far incidere nella nostra lingua: scelsi The way you do the things you do dei Temptations che divenne Sei solo tu, A place in the sun di Stevie Wonder fu tradotta in Il sole è di tutti, You can’t hurry delle Supremes in L’amore verrà. Piero Ricci che era il responsabile della linea internazionale della Rca partì per Detroit e le fece incidere agli artisti».
Ad Aretha non glielo chiese nessuno?
«Era troppo soul per cantare in italiano».
Le case discografiche, visto che eravate in grado di trasformare un pezzo immediatamente in un successo, non vi facevano pressioni?
«Ci corteggiavano furiosamente. Ma a quel tempo c’era anche tanta grande roba da ascoltare. E, comunque, nessuno ci poteva condizionare».
È stata davvero una stagione formidabile, ma di quella generazione soul non è rimasto più nessuno: se ne sono andati tutti abbastanza presto.
«E Aretha è stata l’ultima».