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 2018  agosto 17 Venerdì calendario

L’uomo che parla ai bambini che non parlano

Antoine Doinel, il bambino protagonista di I 400 colpi di Truffaut corre sulla spiaggia verso il mare. Libero, pieno di gioia, Antoine si lancia verso l’acqua: il mare è l’incommensurabile. A suggerire questa memorabile scena, che chiude il film d’esordio del regista, è stato uno strano educatore oggi dimenticato, Ferdinand Deligny, uno dei personaggi carismatici della cultura francese del dopoguerra.
Nato nel 1913 ha studiato da maestro elementare; per sbaglio finisce a insegnare in una classe differenziale a Parigi, una di quelle istituzioni dove vengono relegati i bambini difficili, caratteriali, con problemi di comportamento, ribelli e agitati. Qui, come racconta in I vagabondi efficaci (Jaca Book 1973, traduzione di Lnt, Giuliano Mangano e Francesca Rigotti), scopre la misteriosa condizione rigettata da tutti: l’infanzia disadatta. Nel 1939, alla vigilia della Seconda guerra mondiale è nell’ospedale psichiatrico di Armentières a breve distanza da Dunkerque, dove l’esercito inglese viene respinto dai tedeschi. Si occupa di ragazzi molto simili ad Antoine anche se con un livello di pericolosità sociale più forte: irrecuperabili devastatori, ladri, sabotatori, teppisti. Sono loro che diventano ben presto l’oggetto dell’attenzione di questo educatore. Utilizzando lo stato di guerra, e la conseguente confusione, Deligny prova a creare una diversa condizione di vita per quei bambini e ragazzi. A guerra terminata gli viene affidato un incarico nella regione di Lille: stare con i giovani disgraziati, quelli rigettati da tutti. Il progetto fallisce, ma nel 1948 Deligny ha l’idea di organizzare la Grande cordata. Si prende a carico i ragazzi che nessuno vuole, e mette in piedi una rete di “libera cura": niente letti di contenzione o porte chiuse, niente oppressione o ordini stabiliti. Tutti liberi di andare e venire. Crea una rete di rifugi, simili a ostelli, in rapporto con la clinica de La Borde. Poi incontra Janmari, un giovane di dodici anni, autistico. Oggi tutti sanno cos’è questo disturbo nello sviluppo neurologico, che lede l’interazione con gli altri e anche la comunicazione verbale. I libri di Oliver Sacks e vari film l’hanno reso noto a molti. Ma allora i lavori di Hans Asperger e Leo Kanner, i due scopritori dell’autismo, non erano ancora noti. Deligny accetta l’invito di Felix Guattari e si trasferisce sui monti della Cévennes, a Monoblet, per realizzare il suo progetto con ragazzi psicotici. Ci resterà sino alla morte avvenuta nel 1996 a 82 anni. Per chi non lo conosce ci sono alcuni suoi libri a disposizione. Una zattera sui monti. Stare accanto a bambini che non parlano, cronaca di un tentativo per esempio, è uscito nel settembre del 1977 nella casa editrice di Elvio Fachinelli, L’erba voglio (traduzione di Mariolina Bertini), un libro scomparso che bisognerebbe ristampare.
Il maestro francese è stato molto più che un educatore o uno psicologo: un nomade. Se c’è una figura cui si può accostare, seppur nella grande diversità delle esperienze, è don Lorenzo Milani. La Barbiana di Deligny è una rete stesa tra le montagne della Cévennes, senza alcun appoggio istituzionale, accogliendo bambini problematici, o con sindromi autistiche, mandati a lui da psicoanalisti come Maud Mannoni, Françoise Dolto.
Maestro di Guattari e Deleuze, ha costruito per decenni fino a dodici comunità situate a poca distanza tra loro, dove i ragazzi erano liberi di andare e venire. Di quelle transumanze per i monti Deligny ha tracciato delle mappe, carte, le “linee-traccia” come le ha chiamate, che descrivono gli spostamenti dei bambini. Una zattera sui monti è il racconto di questa avventura, prima umana che educativa o psichiatrica.
Deligny è stato definito un “Don Chisciotte a cavallo di una capra”, dal momento che le capre sono gli animali che accompagnano i ragazzi autistici nei loro spostamenti. La sua ricetta è semplice e difficile a un tempo: «fidarsi dei nostri occhi, fidarsi delle nostre mani, tracciare».
I bambini di cui si è occupato non parlano, stanno da soli, sono aggressivi. Il maestro francese non ha alcun progetto terapeutico; al centro della sua azione c’è piuttosto il lasciare essere di queste creature perlopiù prive di linguaggio, incapaci di verbalizzare. Nessuna rieducazione e nessuna restituzione alla società degli uomini. Nel corso degli anni questa esperienza, che Deligny ha raccontato in una serie di scritti, è stata filmata, restituita attraverso il documentario e mediante fotografie, come quelle contenute nel libro delle Edizioni L’erba voglio: tracciati, incisioni, disegni a matita. In Francia il suo lavoro di scrittura, ricco di accenti poetici, lieve e intenso insieme, è stato raccolto in un voluminoso libro curato da Sandra Alvarez de Toledo per le edizioni L’arachéen, che attende ancora d’essere divulgato nella nostra lingua. Sono aforismi, brevi appunti, racconti di vicende personali, attività di scrittura che dura dal 1945 e che non ha eguali nella pedagogia e psicologia europea. L’uscita in lingua originale dei Vagabondi efficaci attira persone nelle Cévennes. Ci vanno giovani lettori, persone affascinate da questo metodo non-metodo. Nel Sessantotto l’esperimento di Deligny affascina i giovani. Quell’anno Deligny lo trascorre, come racconta, seduto su un’antica roccia ercinica insieme a Jean-Marie J., un ragazzo di tredici anni che non ha mai pronunciato altro che: mammm mammm mammm mammm. Gli studenti della facoltà di lettere dell’università di Montpellier, dopo aver occupato la loro sede d’insegnamento, vanno a trovare Deligny. Gli parlano dello statuto della psicologia, ma Deligny non è psicologo. «Cosa avrei dovuto fare?», si domanda in un testo il maestro. L’unica realtà che lui conosce, e di cui però non si dà scienza, è Jean-Marie e il suo suono articolato. La parola non è al centro del tentativo di Deligny; c’è solo lo stare insieme e poi il silenzio dei bambini. L’incapacità di fornire una cura a chi è incurabile, o almeno tale appare alla scienza psichiatrica; questo è il solo modo che Deligny ha escogitato per creare comunità.
Uno stare assieme che racconta nei due libri, che sarebbe bello veder di nuovo circolare, per riscoprire un maestro non-maestro della nostra sconquassata contemporaneità.