17 agosto 2018
In morte di Rita Borsellino
Attilio Bolzoni per la RepubblicaCosì dolce e così intransigente, all’apparenza – solo all’apparenza – fragile, sempre con un filo di voce, sensibile, delicata. Eppure questa donna è riuscita a non far salire nella sua casa un presidente del Consiglio che voleva entrarci, che voleva proprio da lei “suggerimenti” su come sconfiggere le mafie in Italia. Era l’autunno del 1994, due anni dopo le stragi, due anni dopo l’uccisione di suo fratello Paolo, due anni dall’inizio della sua nuova vita. Quel premier, al tempo amatissimo dalla stragrande maggioranza degli italiani, era Silvio Berlusconi ed era andato sotto la sua abitazione – a Palermo, in via Mariano D’Amelio, la stessa strada dove i mafiosi e i loro complici fecero saltare in aria il procuratore – suonando il campanello e confidando in una calorosa accoglienza. Ma Rita Borsellino, che era costretta all’immobilità per una frattura a un piede, lo respinse con cortesia ed educazione. Donna di principi, donna di coraggio, lontana dai compromessi e schietta a qualunque costo.La sua seconda esistenza è iniziata in una domenica d’estate di tanto tempo fa. «Sono rinata il 19 luglio del 1992», ripeteva.
Prima farmacista (l’attività ereditata dai genitori), poi simbolo di un’antimafia assai distante da quella ambigua che abbiamo conosciuto in questi ultimi anni. Nell’arena siciliana si è ritrovata all’improvviso, quando il presidente della Commissione parlamentare antimafia, Luciano Violante, il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Gian Carlo Caselli, e don Luigi Ciotti la vollero nella direzione di Libera. Fu una svolta per lei. Sempre in giro per l’Italia, sempre incontri ravvicinati con gli studenti. E al suo fianco, un’altra grande donna: Saveria Antiochia, la madre di Roberto, il poliziotto ucciso nell’agosto del 1985 con il commissario Ninni Cassarà. Sono state loro due, più di chiunque altro, le migliori interpreti degli insegnamenti lasciati dal consigliere istruttore Antonino Caponnetto con le “lezioni” nelle scuole italiane di ogni ordine e grado.Un quarto di secolo, anno dopo anno, a portare un messaggio di speranza e la voglia di cambiamento in giro per il Paese e poi per l’Europa, ricordando ogni volta il nome di suo fratello Paolo e ricordando ogni volta il mistero della sua morte.
A Rita non piacevano le parate, le celebrazioni. Diceva sempre che c’è molta distanza fra commemorazione e memoria, fra retorica e impegno. Era fatta così lei. Con tutto il peso che aveva sulle spalle e quel dolore nel cuore, la strage del 19 luglio del 1992, mandanti occulti e depistaggi di Stato, una verità nascosta e ricercata ostinatamente con i nipoti Manfredi, Lucia e Fiammetta e con il fratello Salvatore. L’antimafia e la politica, la politica per fronteggiare la mafia e le sue contiguità. Quelle che in Sicilia hanno avuto il volto di Totò Cuffaro, quando lei ha deciso che era il momento di dare un contributo, di candidarsi alle elezioni regionali. Perse. Qualche anno dopo, alle europee fu la più votata nell’isola. La sua voce a Bruxelles. Sempre con quel suo stile, l’eleganza, la gentilezza anche quando interveniva per dire ciò che gli altri non avevano la forza di manifestare.
Rita Borsellino se n’è andata senza avere avuto giustizia sino in fondo. Della strage di via D’Amelio sapeva tutto e niente. Non voleva conoscere chi aveva ucciso suo fratello Paolo.Voleva sapere perché.
Felice Cavallaro per il Corriere della Sera
Ogni volta che in una scuola finiva di parlare della memoria da evocare «non solo come ricordo, ma per farne esempio quotidiano» i ragazzi correvano a circondarla euforici. E Rita Borsellino, sguardo luminoso, tempra tenace, sorrideva felice davanti a quella gioventù che si è ritrovata intorno l’ultima volta lo scorso 19 luglio in via D’Amelio, sotto casa, memoria della strage ordita nel 1992 per uccidere il fratello Paolo. Ed è questa differenza fra ricordo e memoria da trasformare in pratica di vita che resta come il messaggio di un angelo perduto a Ferragosto dalla scandalosa Palermo, vinta da una malattia che l’ha portata via a 73 anni.
Dalla sua sedia a rotelle, la sofferenza segnata sul viso, la sorella del giudice ucciso la stessa estate della strage di Capaci lanciò meno di un mese fa i suoi garbati consigli come epitaffi lapidari. Confermando di essere diventata il simbolo di un’antimafia lontana da quella parolaia.
Dolce e determinata, Rita Borsellino, da farmacista si era abituata a trovare gli antidoti, in guardia con chi a volte la blandiva.
Ne sa qualcosa perfino Silvio Berlusconi che nell’ottobre del ’94, da premier, bussò al portone di via D’Amelio. Una scena surreale. Con l’ex cavaliere bloccato al citofono, mentre Rita ripeteva a se stessa: «Non se ne parla di farlo salire». Restò tempo solo per una domanda: «Cosa possiamo fare per la lotta alla mafia?». E lei: «Potete fare tutto, essendo al governo».
Aveva resistito quattordici anni prima di lasciare il camice bianco ed avvicinarsi nel 2006, su indicazione dei cosiddetti «cespugli» del centro sinistra, alla corsa (perdente) di governatore dell’isola contro Totò Cuffaro.
Tessere di un contesto ben più complesso ricordato nella camera ardente allestita ieri nei nuovi locali del Centro Borsellino, in una villa confiscata agli amici di Totò Riina, lo stesso complesso residenziale di via Bernini in cui viveva da latitante il numero uno di Cosa nostra. Plastico esempio della città che muta.
Perché le ville sono diventate una caserma dei carabinieri, la sede dell’Ordine dei giornalisti guidato in Sicilia dal figlio di Mario Francese, altra vittima di mafia, e adesso anche quartier generale del Centro dove sono arrivati i messaggi del capo dello Stato Sergio Mattarella e di tante personalità, mentre si avvicendavano magistrati, semplici cittadini, uomini politici, il sindaco Leoluca Orlando che era andato a trovarla in ospedale al Civico, «sorridente».
E che abbia lasciato i suoi cari con serenità lo confermano i figli Claudio, Cecilia e Marta, i nipoti Manfredi, Lucia e Fiammetta, il fratello Salvatore, l’ingegnere scettico per la candidatura del 2009 alle Europee: «La sua voce limpida sarebbe utile in Europa, ma non posso condividere la scelta di candidarsi nel Pd».
Non mancarono le delusioni. Anche con Orlando che la propose come sindaco portandola in giro. Ma dicendo infine che, per evitare sgambetti, era costretto a scendere ancora una volta direttamente in pista, lasciando sbalorditi i sostenitori più vicini a Rita. Compresi tanti volontari di «Libera», l’associazione dove Don Ciotti la cooptò come sua vice.
Comunque sempre vicina al fratello Salvatore, tornato a vivere a Palermo, presidio dei giovani che sbandierano le agende rosse per ricordare che ne manca una, forse sottratta da mani infedeli dello Stato.
Come sembrano indicare le recenti motivazioni della sentenza sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Forse l’ultima lettura di Rita Borsellino, appagata da questo primo passo verso una verità ancora incerta: «Non vogliamo una verità, ma la verità».
Nando Dalla Chiesa per il Fatto Quotidiano
In poco tempo diventò per molti lo sguardo dolce dell’antimafia. Bastò il suo affacciarsi nel movimento. Lo aveva spiegato a tutti, con naturale modestia, che di quel che era successo fino al 1992 si era occupata poco, che la mattanza palermitana non l’aveva trascinata a convegni e fiaccolate. Poi era successo quello che tutti sappiamo. I due terribili boati: il 23 di maggio e il 19 di luglio. L’apocalisse e la disperazione. E il famoso “è finito tutto” soffiato davanti alle telecamere da Antonino Caponnetto, il padre putativo dei giudici dioscuri, che da lì avrebbe iniziato il proprio apostolato civile in giro per l’Italia. Ma se Caponnetto iniziò, Rita addirittura nacque. “Sono nata una seconda volta il 19 luglio”, disse. Ed era vero.
La pacata farmacista che nulla sapeva di movimenti ne divenne una leader naturale. Senza urlare, senza lanciare anatemi, con la calma e il buon senso e la profondità di sentimenti che non portano in tivù. Sarebbe potuta essere un simbolo morale dell’Italia intera, giorno per giorno. Il cielo sa se ne avremmo avuto bisogno. Lo fu per il movimento antimafia, che pure dell’Italia rappresenta alfine il meglio. Lo fu anche per il Paese, ma solo nei giorni comandati: cerimonie e commemorazioni. Non lo fu per la politica, che la candidò ma non ne trasse e tanto meno ne cercò insegnamenti. Nemmeno quando, qualche anno fa, riuscì con Sonia Alfano a dare al parlamento europeo l’unica commissione antimafia della sua storia. Andò subito tra i giovanissimi, consapevole del ruolo che le era toccato. Non aveva paura nemmeno della scuola materna, l’ultimo luogo consigliabile a chi parli di morti e di mafia. Lei però vi raccontava la favola di “Paolo e Giovanni” e i bambini ascoltavano rapiti. Alla fine di un intervento in una scuola elementare un bambino le chiese se poteva chiamare “zio Paolo” il giudice suo fratello. “Gli voglio bene”, spiegò. Nella Sicilia dove la mafia aveva schiacciato le mogli e le madri e le fidanzate e le figlie delle vittime, dove la donna era giudicata dignitosa se silenziosa, Rita lanciò la sfida più alta: essere lei a governare l’isola più bella e insanguinata. Fu una gara meravigliosa, con migliaia di giovani che si misero al servizio di “Rita”, anche tornando a casa dalle università del Nord. Vinse a Palermo, non nelle altre provincie. La Sicilia per la quale si era immolato in quel modo suo fratello le preferì Totò Cuffaro, destinato a finire in carcere per favoreggiamento di mafiosi. Sì, perché quella su cui “Rita” ha camminato con orgoglio è strada aspra e difficile che niente perdona. Strada proterva, che appena accarezzi la speranza ti scaraventa addosso un fiato greve che arriva da lontano.
Io ricordo ancora quella impresa come il traguardo più alto raggiunto dalle donne ribelli nell’intera storia del sud. La malattia l’ha fatta soffrire, talora ne ha anche offeso il sorriso bellissimo. Ma ha resistito come una giovane leonessa, era rinata o no nel 1992? L’ho vista l’ultima volta a gennaio, alla inaugurazione del Centro studi che Palermo ha dedicato al fratello. La trovai bene, senza carrozzella, e mi illusi. In quell’occasione la conobbi nonna affettuosissima delle sue tre splendide e giovani nipoti. Le guardava come fossero un impasto magico di passato e di futuro.. Nel frattempo è arrivata la sentenza sui rapporti Stato-mafia. Ed è emerso nella sua platealità il grande intrigo che aveva depistato indagini e verità. Il viso, in tivù, non è stato più quello che avevamo conosciuto e amato. La voce sì. Tradiva la fierezza rara delle persone senza macchia. Disse più o meno: bisognerà lottare per la verità, e noi ci saremo. Pochi giorni fa. Al futuro. Il futuro non l’ha aspettata. E ora tocca ancor più a tutti noi tirar fuori quella verità dagli abissi del passato. Perché lei seppe raccontarla come una favola. Ma sapeva bene che non era stata una favola. La sua grandezza stette proprio in quella capacità suprema di sdoppiamento. La dolcezza del racconto pubblico, il senso dell’ingiustizia che le bruciava dentro. Grazie Rita.