il Fatto Quotidiano, 15 agosto 2018
La rinascita di Detroit per sfidare Elon Musk
La Central Station di Detroit è diventata l’emblema della decadenza strutturale di una città incalzata da un processo pluridecennale di declino economico. Abbandonata nel 1988, dopo essere entrata in funzione nel 1913, quando le ferrovie erano ancora il sistema nervoso del capitalismo americano, si staglia come una costruzione maestosa, piena di fregi liberty, ben visibile anche a distanza: perciò ha catturato l’immaginario del cinema, alimentando quella tendenza al porn-ruin, cioè all’attrazione per la fatiscenza estrema, che costituisce oggi un modo di guardare alla caduta delle metropoli industriali.
Questa premessa serve a far capire l’intenzionalità della scelta di Bill Ford, che a giugno ha acquistato la Central Station per fare di essa, entro il 2022, il nuovo quartier generale del gruppo che porta il suo nome. Ford non porterà lì soltanto una concentrazione di 2.500 persone che lavorano al vertice della multinazionale, ma farà sorgere un’area di attività e servizi che potranno localizzarsi in quell’area, raddoppiandone la popolazione lavorativa. Per Detroit e per Ford è un segno forte: il gruppo esce dai confini di Dearborn (il sobborgo in cui nacque il fondatore Henry nel 1863 e che rappresenta il suo polo costitutivo) per tornare nel centro della città e riqualificarlo; per Detroit è l’opportunità di imprimere un’accelerazione al tentativo di rilancio urbano, toccando un quartiere, Corktown, che è insieme tra i più prossimi a Downtown, il centro, e tra i più degradati.
Nel caso di Bill Ford, questa sembra anche una decisione in linea con una personalità dal profilo originale: sessantenne, buddhista e vegano, non è mai andato a vivere lontano da Detroit. Ma il gesto che ha compiuto va letto all’interno della strategia non solo del Gruppo Ford, ma del sistema dell’auto del Michigan, convinto di poter rilanciare il proprio ruolo dentro il radicale cambiamento che sta attraversando l’industria della mobilità, sotto il duplice impulso dell’innovazione tecnologica delle politiche economiche e fiscali all’insegna del protezionismo.
Industria della mobilità e non più industria dell’auto, come si è detto fino a ieri. Su questo tasto insiste Ford, poiché il gruppo si qualifica già da ora come un produttore di sistemi di mobilità complessa e integrata, non più di veicoli. Di qui l’enfasi sulle piattaforme elettriche e sulle tecnologie per la guida autonoma, che Ford sta per scorporare in una divisione autonoma (secondo una tendenza che si sta diffondendo anche tra gli altri gruppi, non solo nordamericani).
Sia Ford sia General Motors (più avanti sul fronte del cambiamento tecnologico) hanno l’urgenza di dimostrare come la capacità d’innovazione si possa coniugare a una storia industriale più che secolare. Insomma, più che mai Detroit non vuole accettare di poter essere sconfitta dalla California, così come Gm e Ford non vogliono vedersi sottratta la scena da Elon Musk e dalla sua Tesla. Basta scorrere i bollettini quotidiani del settore per accorgersene, a cominciare da Automotive News: le continue sortite di Musk tolgono spazio agli altri marchi. I suoi tweet infiniti – coi loro annunci perentori, la veemenza polemica, le fughe in avanti – generano un’attenzione quasi parossistica verso la casa californiana e il suo leader. Musk agisce al di fuori di ogni schema, come quando ha manifestato il progetto di un delisting di Tesla, nell’idea che uscendo da Wall Street raggiungerebbe una capitalizzazione ancora più alta, tale da perseguire i suoi obiettivi senza più avere il fiato sul collo di investitori alla ricerca di rapide occasioni di profitto.
Contro Musk, l’industria di Detroit vuole salvaguardare l’immagine di solidità di un patrimonio di competenze che ha dalla sua non soltanto la capacità progettuale ma anche quella esecutiva, che fin qui è mancata a Tesla, in perenne stress per tentare di mantenere i propri obiettivi produttivi. Per Gm il 2019 sarà un anno di verifica, perché le auto a guida autonoma saranno una realtà non soltanto sperimentale. L’anno prossimo lo sarà anche per Waymo, la società di Alphabet-Google che lavora a un veicolo a guida autonoma che nasce dal mondo delle imprese di servizio e non della produzione industriale.
Progetti originali, ormai in fase di esecuzione avanzata, ma di cui è quasi impossibile prevedere il ritorno economico. E qui per Detroit si entra in un campo minato, perché le aspettative di profitto negli anni a venire sono in netta contrazione, per di più sono legate a una rischiosa opzione di mercato. Gm e Ford si sono ormai focalizzate su Suv e crossover, lasciando il settore delle berline ai concorrenti giapponesi ed europei. Fca si è concentrata da tempo su Jeep (che ha fatto segnare a luglio un record di vendite sul mercato Usa: +15%) e Ram (pick-up), lasciando scivolare in un progressivo oblìo il marchio Chrysler. Ad aprile, Gm ha esibito nel suo Renaissance Center un’impressionante capacità di differenziare l’offerta di pick-up sulla base delle proprie piattaforme.
Nel futuro, tuttavia, la tenuta dei marchi di Detroit non si giocherà in primo luogo su un mercato nordamericano che è in contrazione (quest’anno si attesterà a livelli inferiori ai 17 milioni di vetture vendute), ma in Cina, il primo mercato al mondo. E lì le cose sono tutt’altro che facili: Ford ha avuto esiti insoddisfacenti, Chrysler non riesce ancora a decollare. I concessionari cinesi hanno un approccio aggressivo e strumentale verso i produttori; i consumatori non si fanno fidelizzare, sedotti dalle nuove promesse tecnologiche. Eppure, sarà in Cina che si decideranno in buona parte le sorti industriali di Detroit.