La Stampa, 15 agosto 2018
“Io, l’uomo più fortunato del mondo”. Lou Gehrig, il battitore sconfitto solo dalla Sla
Lou Gehrig aveva 36 anni e sapeva che gliene restavano due da vivere quando il 4 luglio 1939 pronunciò allo Yankee Stadium il discorso più importante della sua vita. Era il giorno dell’Indipendenza e la gente lo festeggiava come sempre con picnic, barbecue, fuochi d’artificio, parate e concerti. Ma nessuno sembrava felice quel giorno allo stadio degli Yankees. I 61.808 spettatori che ascoltavano Lou parlare avevano il cuore in gola: i padri stringevano più forte i figli, sforzandosi di trattenere le lacrime. Quello, scrisse il New York Times, fu il più lungo silenzio mai udito in uno stadio del baseball.
Ogni tanto anche Lou tirava fuori il fazzoletto dalla tasca della leggendaria uniforme a righe blu marino che indossava, con le grandi lettere N e Y sovrapposte all’altezza del cuore. Era commosso, temeva di non arrivare alla fine. Ma ce la fece. Le poche, coraggiose e toccanti parole che pronunciò sono ancora oggi collocate dagli americani tra i grandi discorsi che hanno segnato la storia del Paese: quello di Lincoln a Gettysburg, di Martin Luther King a Washington, di John Kennedy nel giorno del suo insediamento. Harry Ludwig «Lou» Gehrig era nato a Yorkville, nell’Upper East Side, il 13 giugno 1903 da genitori tedeschi. In quel quartiere di New York si erano concentrati alla fine dell’800 molti immigrati dalla Germania e dall’Ungheria e tra i ragazzi che giocavano nelle strade c’erano anche Henry Miller, i fratelli Marx e Jimmy Cagney. Suo padre Heinrich era più attaccato alla bottiglia che al lavoro, sua madre Christina puliva appartamenti per fare studiare il figlio, l’unico sopravvissuto dei quattro che aveva avuto: voleva che Lou diventasse ingegnere, come suo zio Otto. Ma già al college si era capito che il destino di quel ragazzo bello e vigoroso sarebbe stato un altro, perché giocava davvero bene sia nella squadra di football che in quella di baseball. Lou era nato 50 giorni dopo i New York Highlanders, la squadra che nel 1913 avrebbe preso il nome di Yankees. Era logico che quello fosse il suo punto di approdo, dopo qualche anno passato a stupire tutti nella squadra della Columbia University.
Paul Krichell, lo scopritore di talenti, vide Lou in azione alla Columbia proprio nel giorno in cui nel Bronx si inaugurava il nuovo stadio degli Yankees. Quel mancino terribile batteva fuoricampo così lunghi che la palla cadeva tra le auto all’incrocio tra la 116a Strada e Broadway. Nel 1923, a 19 anni, Lou firmò per gli Yankees e ricevette 1500 dollari, che portò a sua madre. Due anni dopo, il 2 giugno 1925, il manager Miller Huggins gli annunciò che la gavetta era finita: lo avrebbe schierato in prima base al posto di Wally Pipp, ormai al tramonto. Per il baseball quel 2 giugno è una data storica, perché da quel giorno Gehrig giocò 2130 partite consecutive, uno straordinario record che ha resistito fino al 1995. La resistenza di Lou divenne leggendaria: lo chiamavano «The iron horse», il cavallo di ferro. Giocò con le dita fratturate e con la schiena a pezzi, oppure rialzandosi dopo essere svenuto per una palla presa in testa. Non si fermava mai.
In prima base, un ruolo che non stanca molto, di solito gioca chi è molto forte alla battuta. Lou era una macchina di fuoricampo, di battute valide, di punti battuti a casa. Il suo nome sarebbe oggi molto conosciuto anche al di fuori degli Stati Uniti se non avesse avuto la sfortuna di giocare all’ombra di due campioni leggendari, prima Babe Ruth e poi Joe DiMaggio. Lou non era capace di fare come loro, che amavano i riflettori e le celebrità. Era schivo, timido e senza pretese. In campo era spesso decisivo, ma di lui si diceva: Gehrig? Ah sì… quello che ha fatto tutti quei fuoricampo quando Babe Ruth ha battuto il record dei fuoricampo.
Ma la gente lo amava, si identificava con lui. Giocava con la gioia di un bambino che non vuole mai tornare a casa. Per 2130 volte consecutive l’altoparlante che dava le formazioni aveva detto: Prima base, Lou Gehrig. Poi, il 2 maggio 1939, si era come sbagliato: Prima base, Babe Dahlgren. Non era uno sbaglio. Lou nelle ultime partite era apparso diverso, il suo swing era più lento, la mazza colpiva malamente la palla, aveva fatto persino un errore in prima base. Era stato lui a chiedere di essere sostituito, non voleva che il pubblico lo vedesse così. La moglie Eleanor lo aveva portato alla Mayo Clinic, dove gli avevano diagnosticato una malattia poco studiata e poco sconosciuta. Oggi è nota come Sla, sclerosi laterale amiotrofica, ma si continua a chiamarla «il morbo di Lou Gehrig», anche se nel frattempo ha ucciso anche Mao Zedong, David Niven e Stephen Hawking.
Due mesi dopo allo Yankee Stadium c’erano il sindaco Fiorello La Guardia e altre autorità, c’erano Babe Ruth e tutti i suoi compagni, schierati fra la casa base e il monte di lancio. Quaranta minuti di discorsi, di applausi e di omaggi, ai quali ora toccava a Lou replicare. In un silenzio irreale, quell’ uomo che stava per morire disse: «Amici, nelle due ultime settimane avrete saputo del difficile momento che sto attraversando, ma voglio dirvi che oggi mi sento l’uomo più fortunato sulla faccia della Terra. Sono stato sul campo da baseball per diciassette anni e ho sempre ricevuto affetto e incoraggiamenti da voi, i miei fan. Guardate questi grandi uomini. Chi di voi non vorrebbe essere al punto culminante della propria carriera solo per paragonarsi a loro almeno un giorno nella vita? Certo che sono fortunato». Ha ringraziato i compagni, la moglie, i genitori e poi ha concluso: «Sto attraversando un brutto periodo, ma ho tantissimo per cui continuare a vivere». Mentre una malattia gli toglieva tutto, il grande Lou Gehrig ringraziava la vita per quello che gli aveva dato: «The luckiest man on the face of the Earth», titolarono i giornali il giorno dopo.
Ai suoi piedi c’erano decine di regali: del sindaco, della squadra rivale dei Giants, dei ragazzi che vendevano bibite allo stadio. Ne raccolse uno solo, la coppa che i suoi compagni gli avevano fatto fare. Su un lato delle base erano incisi i loro nomi, su quello opposto una poesia che aveva scritto John Kieran, l’esperto di baseball del New York Times. «Lascia che questo sia un omaggio silenzioso, / una luce dell’amicizia duratura / e di tutto ciò che abbiamo lasciato di non detto». Quando Kieran andava a trovarlo, la coppa era sempre vicino al letto. «Leggo la tua poesia e mi sento meglio», diceva Lou. Dopo il funerale, Kieran disse che quelle parole erano state la ricompensa più alta che avesse ricevuto, per qualunque cosa avesse mai scritto.