La Stampa, 15 agosto 2018
Storia del ponte Morandi di Genova
I genovesi lo chiamavano «Ponte di Brooklyn», nella loro splendida e provinciale innocenza. Perché gli Anni Sessanta gonfiavano le aspettative e il maxi-viadotto autostradale che solcava la città sull’operosa Val Polcevera era la prima struttura con la fisionomia della modernità. Le ciminiere pompavano fumi, i poli metalmeccanici e petrolchimici sembravano garantire benessere perpetuo, le navi aspettavano in buon ordine il loro turno in rada. Quel ponte, sospeso a 50 metri di altezza, con tre coppie di robusti piloni che salivano fino a 90 metri e da cui partivano giganti travi e fasci di cavi in obliquo, appariva come un nuovo e invidiabile simbolo della città.
L’avevano inaugurata con colossali coreografie, il 4 settembre 1967, dopo 5 anni di lavori, il Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat e tre ministri (Paolo Emilio Taviani, Giacomo Mancini e Giorgio Bo): «Un’opera ardita», dissero. In effetti, era tra i primissimi esempi in Italia, certamente il più grande, di ponte strallato interamente in cemento armato. L’aveva concepito uno degli ingegneri più avanzati del tempo, Riccardo Morandi, massimo interprete del connubio tra calcestruzzo e ferro, risolutore del problema statico attraverso l’occupazione dello spazio, convinto dell’estrema solidità associata all’elasticità. Era il culmine dell’avanguardia.
La previsione sbagliata
Ma nessuno aveva saputo accennare a Morandi un fattore: Genova e il suo porto sarebbero cresciuti con un tasso non preventivabile, così come il traffico su questo crocevia tra Liguria, Lombardia e Francia. Nessuno aveva previsto la portata di crescita del traffico in genere, del traffico pesante nel dettaglio e del porto nello specifico. Nel 1961, quando venne posata la prima pietra, lo scalo ligure sonnecchiava nella sua posizione naturalmente dominante grazie alle sole banchine di Sampierdarena. Poi arrivò il porto di Pra’-Voltri, che avrebbe raddoppiato ogni numero. Il traffico di container sulla rete autostradale decuplicò (oggi 4 mila camion entrano ed escono in porto ogni giorno), di pari passo auto e Tir aumentarono senza alcun tipo di contenimento e il nodo di Genova (dati Autostrade) diventò il più tossico della rete italiana (molto peggio di quello di Mestre).
Ponte Morandi è così diventata la maschera ipocrita e italianissima di una contemporaneità solo assaggiata, che ha masticato un futuro posticcio a costi altissimi in impatti ambientali e cantieri. Il ponte, nel 1968, dopo un solo anno di esercizio, era già soggetto a vaste manutenzioni. Negli Anni Settanta gli ingegneri raccontavano quel ciclo di lavori con una smorfia di dolore: «Tu cominci a metterlo a posto, parti da un lato e finisci dall’altro. E quando hai finito devi subito ricominciare daccapo».
La Bretella e la Gronda
L’immaginario romantico del «Ponte di Brooklyn»,d’altra parte, svanì nelle logoranti attese in coda sulle striminzite corsie del viadotto, due per senso di marcia e senza quella di emergenza, tra cantieri e strettoie, incidenti e bulloni caduti tra le case di sotto. Pensare a una correzione divenne obbligatorio e la prima soluzione partì da lontano, sul finire degli Anni Ottanta: non risolveva il caso del Morandi, ma offriva sfogo al traffico immaginando una «bretella» da Voltri (nell’Estremo Ponente) a Rivarolo (alle spalle di Sampierdarena).
L’opera trovò la rivolta della popolazione (1991): nessuno comprese la bontà (viaria) del tracciato. A prendersi la responsabilità del «No» fu Claudio Burlando, playmaker genovese dei primi 90: stoppò il progetto e il ministro Prandini fu lesto a spostare 900 miliardi di lire su altre opere (1994).
Il 7 luglio del 2001, i vertici di Autostrade convennero in Regione Liguria con il presidente Sandro Biasotti che la rete non avrebbe potuto reggere. Serviva un raddoppio dal ponente all’allaccio con l’A7 per Milano, che comportasse anche un raddoppio del Morandi: o affiancandogli una struttura gemella (ma più forte e più larga) o abbattendolo in favore di un nuovo mega-viadotto più a monte, capace di ospitare dieci corsie. Era il progetto della «Gronda», una bretella di nuova concezione, per lo più in galleria, su cui deviare tutto il traffico passante o pesante.
Sia Biasotti sia il successore Burlando ingaggiarono Santiago Calatrava per un possibile disegno del nuovo ponte. Il primo suggerì, in caso di declassamento del Morandi a uso urbano, di dotarlo di una corsia in cristallo pedonale; il secondo convinse l’archistar a pensare un raccordo con il nodo di San Benigno, vista sulla Lanterna.
Nessuno poteva sospettare che il concessionario avrebbe approfittato di ogni querelle per rinviare l’opera - Gronda e nuovo Morandi - sine die. L’accordo del 2004 con il sindaco Giuseppe Pericu che autorizzava la costruzione, con tanto di automatismo per l’aumento del pedaggio, cadde facilmente quando il successore Marta Vincenzi chiese un dibattito pubblico per verificare lo scenario di un ulteriore innalzamento del tracciato, in modo da alleggerire la servitù sulla città e al contempo per portare l’autostrada nelle vallate.
La battezzò «Gronda vasta». Autostrade finanziò il dibattito e tutto andò per le lunghe. Nel frattempo si affacciarono nuove inimmaginabili soluzioni, compreso il tunnel sotto il Polcevera, una «Gronda in subalveo», per superare la città.
Ponte Morandi restava sulla vallata e invecchiava, la classe degli amministratori cambiava e il vento contrario alle opere alimentava la bonaccia. I genovesi, insieme a camionisti, turisti, travet, manager e famiglie di tutt’Italia, passavano ore in coda. Fino a ieri mattina, quando la strada davanti a loro si è squarciata. Il ponte è collassato sul torrente in secca, tra i vecchi binari del treno orfani del Terzo Valico appenninico e gli usurati gasdotti diretti al porto. Tutto insieme, tutto troppo vetusto, troppo immobile.