la Repubblica, 15 agosto 2018
Quando Goethe parlava con gli dèi
I dolori del giovane Werther, che un giovane avvocato tedesco scrisse tra il febbraio e l’aprile 1774, è in primo luogo un capriccio delizioso, una elegantissima variazione di Omero e di Ossian. Il Werther è un tentativo di suicidio: è un chiaro di luna; il passaggio incerto di un viandante per le strade della notte. È l’Ecclesiaste, i Vangeli, Omero, Ossian, i secoli della tarda felicità e severità cristiana: l’incanto del cuore: una raffinata conversazione: la bellezza della natura; il brivido delle piccole cose, trasformate in pura musica verbale.
Goethe provava contemporaneamente un immenso amore per il genere umano e un non meno immenso disprezzo. Tutto era inesprimibile: tutto era, e non era, una ricerca di Dio – e c’era anche Werther, il povero Werther, col suo gilet giallo e il frac azzurro – il quale viene condotto con violenza verso la morte.Secondo Herder, Goethe era «un giovane lord altezzoso, cogli occhi incantevoli»: «un vero signore degli spiriti», accompagnato da una misteriosa moltitudine di esseri femminei. Tutti parlavano di lui. «Oggi – scriveva alla sorella il giovane principe di Sachsen-Meiningen – il signor Goethe ha pranzato vicino a me. Parla molto, in un modo singolare, spontaneo e divertente. Ha le sue idee e le sue opinioni su tutte le cose».
E un famoso medico avvertiva Charlotte von Stein: «Non sa quanto quest’uomo amabile e affascinante potrebbe diventare pericoloso per Lei... È un grande genio, ma un uomo terribile. Una signora mi ha detto che Goethe è l’uomo più bello, più vivo, più originale, più ardente, più impetuoso, più dolce, più seducente che esista al mondo».
Come «un giovane grazioso cacciatore», Goethe sedeva modestamente in un angolo del salone, ascoltando con attenzione le voci. Nessuno tra gli stranieri lo riconosceva o gli faceva caso. Infine, stanco di tacere, chiedeva di leggere qualcosa. Da principio, recitava un idillio o una ballata. Poi, come se il diavolo – lo spirito inquieto di Mercurio – gli fosse entrato in corpo, leggeva poesie che nessuno aveva mai scritto, guardandosi intorno con i suoi «neri, splendenti occhi da italiano». Improvvisava in tutti i toni e in tutte le maniere: esametri, giambi, liriche, favole, ballate.
Sentiva di continuo accanto a sé la presenza di esseri supremi, che osservavano la sua vita. Il «sacro destino» stava alle sue spalle, e lui poteva sentirne il respiro o intravederne il volto. Oppure un messo degli dèi lo prendeva per mano, sospingendolo benignamente verso qualche meta. Mille segni misteriosi si rivelavano nel volo degli uccelli, negli improvvisi presentimenti del cuore e negli inviti del caso.
Ma cosa volevano, cosa pretendevano da lui queste forze celesti? Cosa significavano i loro cenni? Talvolta Goethe temeva che gli dèi volessero perderlo. «La mia vita – insisteva – procede secondo le decisioni degli dèi, che io onoro in profondo presentimento»: «soltanto gli dèi sanno ciò che vogliono e ciò che voglio fare di me. Accada la loro volontà».
Viveva sempre alla periferia del proprio essere, andando incontro agli altri con un infinito impeto di dedizione. Cercava di identificarsi con tutti i suoi amici e i suoi corrispondenti: secondo le persone a cui si rivolgeva, cambiava le idee, il tono, persino la lingua delle sue lettere: mefistofelico e tenerissimo, naturale e complicato, ingenuo e fuggevole. Poi, all’improvviso, guardava gli altri con occhi freddi e senza partecipazione. Sembrava che tutte le persone che amava e di cui era amico fossero solo dei frammenti, delle inezie, degli atomi del suo cuore che, molto tempo prima, forse in un’altra vita, aveva proiettato sul mondo con il gesto del creatore sovrano.
Ora tutte queste creature stavano fuori di lui: membra staccate, fili dispersi di un essere ancora ignoto; e lui cercava di raccoglierle un’altra volta intorno a sé, fondendole in un’unica tenerezza, ombra del grande amore vagabondo che percorre la terra.