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 2018  agosto 15 Mercoledì calendario

La rivoluzione delle serie e il sovranismo televisivo

Con aria molto concentrata (è caratteristica di questo governo), il ministro dei Beni culturali, Alberto Bonisoli, si è chiesto perché solo in Italia la stagione cinematografica è così corta (per quattro mesi non escono film) e perché le serie tv più seguite dal pubblico sono tutte straniere.
La prima domanda andrebbe rivolta al MiBAC: lo Stato finanzia a fondo perduto troppi film che non escono nemmeno nelle sale e questo non è certamente il modo migliore per far crescere l’industria cinematografica. Per la seconda, basta una semplice constatazione: sono più belle. Per molto tempo, la cultura italiana ha snobbato la serialità americana non capendo che alcuni prodotti hanno avuto la capacità, come e forse più dei romanzi, di restituire la complicatezza del reale, di esplorare temi cruciali per la sensibilità condivisa, di costruire un nuovo universo narrativo.
Proprio il formato seriale di questi testi, basato su archi narrativi ampi, che si sviluppano per più stagioni e permettono di indagare in profondità la psicologia dei personaggi, di mostrare i collegamenti tra temi ed eventi, si era trasformato da una sorta di espediente retorico usato per fidelizzare il pubblico popolare (pensiamo a come funzionava il romanzo d’appendice) in una risorsa narrativa ricercata e raffinata. Noi, alla grande serialità, ci siamo arrivati da non molto (la Rai ha fatto poco in questo senso) e, come spesso succede in Italia, come spesso succede a chi scopre le cose in ritardo, c’è già chi ha decretato la fine della serialità televisiva. Forse più per snobismo che per passione o competenza.
La verità è che non abbiamo mai avuto così tanta «buona tv» con cui confrontarci, senza peccare di «sovranismo televisivo», senza doverne per forza contrastare la concorrenza. Fare anche noi «buona tv», questo sì.