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 2018  agosto 15 Mercoledì calendario

I dolori di Marlon Brando e il processo al figlio nel 1990

Due ore dopo che il più grande attore della storia del cinema ha telefonato per denunciare una sparatoria in casa sua, i detective della sezione omicidi Lee Kingsford e A.R. Monsue arrivano nella villa di Mulholland Drive. L’area è già sotto sequestro e i medici della scientifica hanno stabilito che la vittima è morta per un singolo colpo di pistola alla testa. Si chiamava Dag Drollet, 23 anni, ed era arrivato da Tahiti pochi giorni prima insieme alla compagna Cheyenne, quinta figlia di Marlon Brando, al settimo mese di gravidanza. Il fratellastro di lei, Christian Brando, è in manette nell’auto che lo sta portando alla centrale. «Non volevo sparargli, non volevo – ripete – Stavamo litigando, lui ha afferrato la pistola ed è partito il colpo. Credetemi, non ucciderei nessuno. Non ucciderei nessuno nella casa di mio padre. Sono innocente». 
Ai detective Kingsford e Monsue basta uno sguardo nel salotto per capire che non può essere andata così. Il corpo di Drollet è sul divano: nella mano sinistra tiene ancora stretto un accendino Bic, nella destra il telecomando. A quel punto i due agenti salgono nella stanza da letto del padrone di casa: «Sembrava soltanto un triste, umile, remissivo vecchio uomo – racconteranno ai giornali —. Mentre ci ripeteva la sua storia si è messo a piangere più volte». Ormai è passata mezzanotte del 16 maggio 1990. Il proiettile, calibro 45, verrà trovato solo alcuni giorni dopo.
Il più grande di tuttiPer i cinefili Marlon Brando era stato il prescelto dagli dèi del cinema. Secondo altri, al di là del fascino e dell’enorme talento, quel giovane figlio della middle class si era trovato al posto giusto nel momento giusto: e cioè a Broadway, e poi a Hollywood, negli anni più luminosi, tra i ‘40 e i ‘50. La sua leggenda è merito di una manciata di ruoli davvero straordinari: Stanley Kowalsky in Un tram chiamato desiderio di Tennessee Williams; il nobile bandito messicano in Viva Zapata; il primo dei ribelli senza una causa nel Selvaggio; l’ex pugile che avrebbe potuto essere un campione in Fronte del Porto. Il suo fisico, il suo sguardo, il suo erotismo segnano una rivoluzione. E quelli che verranno dopo di lui, da James Dean a Paul Newman, da Robert De Niro a Sean Penn, non faranno che continuare la sua strada.
Anche Christian, il figlio primogenito, quello che Marlon diceva di amare di più, aveva provato a fare l’attore. Forse anche lui avrebbe potuto avere classe, invece di essere niente? Dal giorno in cui era nato, l’11 maggio 1958, era stato l’oggetto di una feroce battaglia legale tra i genitori, ma nel frattempo l’avevano cresciuto assistenti di produzione, tate e baby sitter a ore. 
Nel 1972, mentre il padre è a Parigi sul set dell’Ultimo tango, sua madre, l’ex modella inglese Anna Kashfi – «la donna più bella che abbia mai incontrato», scriverà Brando nelle sue memorie, ma presto devastata da droga e alcol – decide di farlo rapire da un gruppo di hippie. Promette loro diecimila dollari, poi si rifiuta di pagare. Il ragazzino viene ritrovato in Messico da un detective assoldato dal padre: denutrito e sotto l’effetto di stupefacenti, è in gravi condizioni di salute. Da allora si trasferisce stabilmente a Los Angeles, ma non troverà mai la sua strada: abbandonata la scuola prima del diploma, fa lavori saltuari come il barman, l’operaio saldatore, il pescatore in Alaska, e anche il piccolo spacciatore di droga. Ossessionato dalle armi, ne raccoglie una collezione. 
Il prezzo da pagare La mattina del 17 maggio 1990 la villa di Mulholland Drive è sorvolata dagli elicotteri che trasportano i fotografi dei tabloid. Fuori dal cancello in ferro battuto, i giornalisti rovistano – letteralmente – nei cassonetti della spazzatura: trovano soltanto centinaia di lettere d’amore delle fan per Jack Nicholson, amico e vicino di casa di Brando.
Nell’udienza preliminare il giudice fissa la cauzione per Christian, indagato per omicidio di primo grado, a 10 milioni di dollari, la più alta nella storia degli Stati Uniti. Lui insiste: «Il colpo è partito per errore, stavamo discutendo, mia sorella Cheyenne mi aveva detto che lui la picchiava e volevo mettergli paura». 
Sua padre assume il migliore penalista di Los Angeles, Robert Shapiro, che qualche anno dopo riuscirà a far assolvere un certo OJ Simpson. La Procura accetta l’offerta della difesa: Christian si dichiara colpevole in cambio della riformulazione dell’accusa in omicidio preterintenzionale. La teste chiave, la tormentata Cheyenne, nel frattempo è sparita: il padre le ha dato un biglietto con falso nome per Tahiti, dove dà alla luce un maschio, che chiama Tuki.
Al processo il vecchio attore si trascina lentamente fino al banco dei testimoni. È obeso, decadente, disperato. Quando parla perde il filo, confonde le date. A un certo punto ammette: «Penso che come padre ho fallito». Il suo personaggio commuove ancora una volta gli spettatori. Il padre della vittima, l’insegnante in pensione Jacques Drollet, arrivato da Tahiti per assistere al dibattimento, è furioso: «Mi ricorda la storia di Caino e Abele. Quando Caino uccise suo fratello Abele, non riusciva a dormire perché sentiva uno sguardo sopra di sé. Era la sua stessa coscienza, e anche la coscienza della comunità. Io penso che anche Marlon Brando la notte sentirà quello sguardo sopra di sé».
L’accusa chiede 16 anni, il massimo della pena. Il 5 gennaio 1991 Christian viene condannato a 10 anni; dopo 4 anni e sei mesi esce per buona condotta.
Titoli di codaIl duca nel suo dominio – come lo aveva chiamato Truman Capote nel 1956 in un articolo per il New Yorker che fece epoca – adesso sembra piuttosto il Re Lear di Shakespeare. Una parte che non interpreterà mai, perché ha già smesso di fare l’attore tanto tempo fa. Negli ultimi film Brando è solo un souvenir pacchiano, come le statuine della Torre di Pisa e del David di Michelangelo.
Ma il peggio non è ancora arrivato. Il 16 aprile 1995 Cheyenne si toglie la vita. Fin da ragazzina aveva sofferto di gravi problemi psichiatrici. Il figlio nato dall’unione con Drollet le era stato tolto dopo poche settimane. Per l’omicidio del compagno, Cheyenne era arrivata ad accusare il padre: «È stato lui a convincere Christian a uccidere Dag. Papà non ha un’anima, è uno spirito maligno che si diverte a manipolare le persone». Per gli inquirenti erano le farneticazioni di una donna malata, per la stampa scandalistica una miniera d’oro. 
Christian Brando muore di polmonite il 26 gennaio 2008. Complicanze legate all’Aids, scrive il New York Post. Nelle due settimane in cui è stato in coma all’Hollywood Presbyterian Hospital, una quindicina di parenti – tra i quali due ex mogli, la madre ricomparsa dopo vent’anni e alcuni fratellastri – si sono messi a litigare per l’eredità. Poi un’infermiera li ha avvertiti che il paziente risultava indigente e non aveva nemmeno l’assicurazione sanitaria. 
Gli dèi hanno avuto un barlume di pietà nei confronti di suo padre: il grande Marlon Brando non ha potuto assistere alla scena, perché è morto 4 anni prima. In vita sua, non era mai riuscito a conoscere il piccolo Tuki, suo nipote. Da ragazzo, il figlio di Cheyenne e Dag Drollet è diventato un modello ed è stato il volto delle campagne di Versace. Assomiglia al nonno in modo impressionante, forse è ancora più bello.