Corriere della Sera, 15 agosto 2018
Investimenti dalla Cina? Così per otto Paesi è scattata la «trappola del debito»
In giugno, il parlamento australiano ha votato una legge di «sicurezza nazionale» che mette al bando le interferenze straniere nel Paese. Nel testo non si parla di Cina ma è pensando a essa che è stata scritta: l’anno scorso, presentando la norma, il primo ministro Malcolm Turnbull aveva parlato di «inquietanti racconti sull’influenza cinese» nel Paese. Da allora, tra Pechino e Canberra è sceso un grande freddo, nonostante la Cina sia per l’Australia il vicino indispensabile. È che Pechino può essere un partner utile ma anche molto scomodo, persino pericoloso.
Le irritazioni australiane non sono niente di originale, di questi tempi. Succede, in Asia ma non solo, che i progetti di espansione cinesi – economici ma con un lato geostrategico rilevantissimo – stanno provocando opposizioni sempre più frequenti: politiche, economiche, sociali.
In Pakistan, il nuovo governo di Imran Khan dovrà affrontare il problema del debito pubblico, non sostenibile dal Paese: la voce che l’ha spinto fuori controllo è il corridoio infrastrutturale Cina-Pakistan che finisce nel porto di Gwadar, sull’Oceano Indiano: opere da 62 miliardi di dollari (corruzione permettendo) finanziate con prestiti cinesi. Se Islamabad non riuscirà a rispettare le rate del mutuo, Pechino potrebbe mettere le mani sull’intero corridoio. Il modello di «trappola del debito» già c’è.
Per costruire il porto di Hambantota, lo Sri Lanka è entrato in una spirale di prestiti con banche e imprese cinesi: alla fine, incapace di servire il debito, lo scorso dicembre ha dovuto cedere a Pechino il controllo del porto per i prossimi 99 anni. L’americano Center for Global Development ha calcolato che otto Paesi sono sulla strada della «trappola del debito» con la Cina: oltre allo Sri Lanka e al Pakistan, Tajikistan, Kirghizistan, Mongolia, Laos, Maldive, Gibuti. Sono solo alcuni dei 78 Paesi coinvolti nella Belt and Road Initiative, il progetto economico e geopolitico da oltre mille miliardi di dollari (chiamato anche nuova Via della Seta) attraverso il quale la Cina intende costruire strade, ferrovie, porti, aeroporti, centrali, gasdotti e oleodotti in tutta l’Eurasia e in Africa. È che, nel farlo, non regala niente a nessuno. Anzi.
La ferrovia che congiunge Gibuti con Addis Abeba, anch’essa finanziata con denaro cinese, ha potenzialmente un valore notevole per l’Etiopia, che non ha accesso al mare ed è al cuore dell’instabile Corno d’Africa. L’infrastruttura, del costo di 2,5 miliardi di dollari, in questo caso non pone però solo problemi di sostenibilità del debito, ha anche creato malcontento tra gli abitanti che prima hanno perso le loro terre e ora dalla ferrovia non traggono benefici.
Il problema è che i progetti cinesi sono spesso non trasparenti, indifferenti al loro impatto sociale e ambientale. E le ricadute economiche per i Paesi ospitanti i progetti sono scarse: il Center for Strategic and International Studies di Washington ha calcolato che il 90% dei progetti di trasporto finanziati da Pechino sono andati a contractor cinesi, solo il 10% ai locali. In più sui porti di Gibuti c’è una grande attenzione diplomatica, dal momento che il piccolo Paese sulla costa africana del Golfo di Aden ospita ormai la prima base della Marina cinese fuori dalle acque nazionali.
Problemi simili ci sono in Malaysia e nel Myanmar. E persino la ferrovia Belgrado-Budapest e una superstrada nel Montenegro stanno sollevando problemi. Nella strategia di Xi Jinping, l’intervento in Paesi bisognosi di infrastrutture e a corto di denaro è spesso agevole. Almeno all’inizio, quando si tratta di convincere un governo. Nei Balcani sta funzionando, anche con un’attenzione alle vie di rifornimento verso l’Europa centro-orientale sulla quale Pechino poggia notevoli speranze di affari e di alleanze politiche. A fine giugno, Sofia ha ospitato la conferenza 16+1, dove l’uno è Pechino e 16 sono i Paesi dell’Est Europa con cui il governo cinese intende creare una piattaforma per investimenti. Prospettiva che però non è apprezzata a Bruxelles: di recente, gli ambasciatori a Pechino dei Paesi della Ue, a eccezione di quello ungherese, hanno firmato una lettera nella quale dicono che la Belt and Road Initiative è contraria agli interessi europei.
Anche un porto nell’Alto Adriatico, verso Trieste, ha suscitato l’interesse cinese (e un po’ anche italiano): nella prospettiva di creare un corridoio «amico», oltre a quello che parte dal porto del Pireo (anch’esso controllato da interessi di Pechino) per collegare il Mediterraneo all’Europa Orientale. Sono opere che possono portare benefici. Ma anche pentimenti. Una società di consulenza americana, Rwr Group, ha calcolato che progetti della Belt and Road Initiative per 420 miliardi di dollari sono in difficoltà a causa di rinvii, opposizioni per ragioni di sicurezza, proteste della popolazione.
Gli eredi del presidente Mao stanno imparando che nemmeno la nuova Via della Seta è un pranzo di gala.