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 2018  agosto 15 Mercoledì calendario

Cronaca del crollo del ponte Morandi e di quello che ne è seguito

«Spostatevi, che dobbiamo movimentare un cadavere». Le urla arrivano dal greto del Polcevera. I vigili del fuoco stanno fissando ai tiranti della gru un povero corpo avvolto in un lenzuolo bianco. Alle 18.15, quando arriva il corteo delle autorità, il primo ministro, il presidente della Regione, il sindaco, la morte è ormai diventata pura contabilità. Dietro di loro avanza una fila di furgoni mortuari della cooperativa sociale Maris, che da sette ore fanno avanti e indietro con l’obitorio. La speranza è sepolta sotto tonnellate di cemento e acciaio, sotto una piramide grottesca di macerie che con il loro peso hanno abbassato il letto del torrente di una decina di metri. 
In mezzo a quei blocchi giganteschi si intravedono carcasse di auto, così deformate da rendere quasi impossibile la loro identificazione. C’è quella che sembra una Passat grigio chiaro ridotta a una striscia di metallo che spunta da una fessura a venti metri dal terreno. Ci sono fanali, pezzi di motore, vetri, sparsi ovunque. Sono passate più di sette ore dal crollo, ma i soccorritori lavorano alle estremità franate del ponte, sulle vetture che si sono schiantate 56 metri più in giù ma non sono state completamente schiacciate dai massi di cemento. Quando la gru piazzata su viale Perlasca riceve i resti di un corpo, nel cantiere del disastro tacciono le frese che stanno tagliando il ferro, si fermano le motrici che tentano invano di spostare blocchi alti come palazzi. Solo in quel momento è possibile immaginare quante volte nella nostra vita siamo passati da quel ponte, da quella curva sospesa nell’alto, e cosa deve aver provato chi ha avuto la sfortuna di essere stato su quei duecento metri di strada sospesa, lo strapiombo, la sensazione del vuoto, la consapevolezza che all’improvviso, senza una vera ragione, senza un perché, quel che uno è stato, i sogni, il futuro, è finito con uno schianto. Poi i lavori e il rumore ricominciano, i cani vengono nuovamente liberati sulle macerie, nella vana ricerca di qualche segno di vita. 
Il crollo improvviso Ponte Morandi è molto più di un cavalcavia, è qualcosa che fa parte di Genova, della sua identità, da sempre. Avrebbe compiuto 51 anni il prossimo 4 settembre. Nel 1967 lo inaugurò il presidente Saragat, tagliando un nastro piazzato all’altezza del pilone centrale, quello che adesso non c’è più. Il ministro dei Lavori Pubblici Giacomo Mancini lo definì un simbolo dell’Italia che avanzava, «opera imponente e moderna che merita riconoscimento unanime per le sue caratteristiche ardite». Crolla alle 11.36 di un martedì di pioggia intensa. Non ci sono tremolii, non ci sono i segnali premonitori che secondo alcuni annunciano un terremoto. Crolla, e basta. Spiegano gli esperti della Protezione civile che il cedimento non avviene dal basso, dal pilastro centrale, ma dal punto più alto, dagli stralli, i grandi sostegni laterali che ai genovesi suscitavano paragoni orgogliosi con il ponte di Brooklyn. Poi è un effetto domino. Crollano 200 metri di carreggiata e infine cede il secondo dei tre piloni in cemento armato che raggiungevano i novanta metri di altezza e sorreggevano i 1.102 metri di lunghezza della struttura. Restano quei due spuntoni affacciati sul nulla, e su quello di sinistra il camion della Basko, una catena di supermercati cittadini, che inchioda i freni, e si ferma a cinque metri dal vuoto. 
La grande scintilla«È crollato il Ponte Morandi». La prima telefonata al 112 è di un abitante del quartiere, Andrea Rescin, che vede tutto dal balcone. «Sembrava una bomba, la prima cosa che mi è venuta in mente è stata un’esplosione». Non viene creduto. Poi arrivano le immagini, il «Dio mio» che le accompagna. Ma non ci si crede, perché è impossibile, non può essere venuto giù. Giuseppe Cominotti, che abita nel quartiere collinare della Coronata, vede un fulmine abbattersi sulla ex centrale del gas, e poi il viadotto illuminato da una luce azzurra. «Pochi secondi dopo si è alzato il fumo, che saliva nonostante la pioggia, e quando si è diradato, il ponte non c’era più». La teoria del fulmine accompagna la prima parte della giornata, ma è solo una testimonianza dell’incredulità generale, l’evento sovrannaturale che giustifica quello sfacelo, quella visione che sfida la ragione. Ma non c’era un temporale in corso, pioveva forte e basta, il fulmine che qualcuno ha visto non è altro che la grande scintilla prodotta dallo strappo delle strutture metalliche e dai cavi. 
I lavori sulla strutturaQuel ponte era un malato sul quale ogni giorno passavano 75 mila veicoli. Lo snodo per tutta la viabilità del Nordovest era un vecchietto che non faceva dormire sonni tranquilli a nessuno ed era oggetto di continui dibattiti sulla sua inadeguatezza, sulla sua usura. Le cinque alternative di tracciato non hanno mai convinto, l’unica soluzione era una specie di terapia intensiva. L’ultima medicina sarebbe stata somministrata subito dopo l’estate. E riguardava proprio il secondo pilone, quello che ieri mattina è crollato in un attimo. La Società Autostrade aveva assegnato un appalto da 20 milioni di euro per interventi urgenti proprio in quel tratto del ponte Morandi, ed è facile prevedere che l’inevitabile inchiesta della procura partirà proprio da qui, dall’ultimo di una serie infinita di rattoppi. 
I soccorsi e le vittime Le voci sotto le macerie si spengono presto. Sono quelle degli automobilisti che percorrevano la strada più in basso. Una parte del ponte si abbatte su un capannone dell’Amiu, l’azienda di raccolta dei rifiuti. Due suoi dipendenti sono appena saliti sul loro furgone per entrare in servizio. Quando li ritrovano, le luci della vettura sono ancora accese. Non hanno fatto in tempo a mettere in moto. Sono loro le prime due vittime. Ne seguiranno altre 29, il bilancio ufficiale si ferma a quota trentuno, ma solo perché ci sono altri corpi ai quali è ancora impossibile dare un nome. La parte di destra di via Perlasca viene evacuata in fretta e furia. È il quartiere degli ecuadoregni, case popolari affacciate sul torrente Polcevera dove un tempo vivevano gli operai dell’Italsider. L’enormità di quel che è accaduto è evidente da subito, le immagini che fanno il giro del mondo lasciano senza parole, o almeno dovrebbero. La diocesi di Genova apre le porte agli sfollati, una ventina di abitanti del quartiere si rifugia nella chiesa più vicina mentre gli altri raggiungono il centro sportivo di Sampierdarena, a un chilometro di distanza, messo a disposizione dal Comune. Le amministrazioni di Milano, Torino, Firenze, chiamano per offrire aiuto, mentre la circolazione intorno a Genova impazzisce. 
La telefonata al sindacoMarco Bucci riceve la telefonata mentre è in auto, reduce dal consiglio della Città metropolitana. E anche lui all’inizio fatica a crederci. «Ho pensato che fosse crollato un cornicione del ponte». Le immagini del pilone crollato che gli arrivano sul telefonino sono uno schiaffo in faccia. «Sarò banale, ma confesso di avere pensato alle Torri Gemelle». Vengono fatte chiudere le utenze di gas e elettricità nel raggio di due chilometri, gli uffici della Protezione civile regionale diventano il punto di smistamento dei soccorsi che arrivano da mezza Italia. Ma il sindaco manager non è uomo da lacrime. «Bisogna pensare a ricostruire subito, senza parlare di attese lunghe anni. Onoreremo le vittime, certo. Ma non vogliamo dire che la città è in ginocchio e non dobbiamo cedere all’autocompatimento, a pensare che siamo disgraziati. Dobbiamo fare le infrastrutture, presto e bene, perché l’ultimo metro di autostrada a Genova è stato fatto nel 1977. Dobbiamo pensare al futuro, senza piangerci addosso». 
Il cratere tra i detriti I vigili del fuoco hanno scavato un cunicolo che corre ai piedi del monolite alto trenta metri caduto dal cielo. A percorrerlo, guardando travi di cemento spesse quattro metri spezzate a metà, dalle quali spuntano rondini d’acciaio contorte, una scena dove ogni maceria è fuori scala, viene davvero da chiedersi come sia potuto accadere. Il presidente del Consiglio Giuseppe Conte si guarda intorno incredulo. Gli indicano il pezzo di ponte lungo venti metri crollato tra i binari e un capannone per fortuna deserto. Lì sotto c’è il cratere, ancora irraggiungibile, dove è sepolta un’altra trentina di auto. È troppo profondo per le sonde, l’unico modo per farsi spazio e spaccare il cemento con le mazze e tagliare l’acciaio con le cesoie idrauliche. «Io una cosa del genere non l’ho mai vista» dice Alessandro, un vigile del fuoco incontrato su tante altre sciagure, terremoti, inondazioni. «Sembra impossibile». Non c’è nient’altro da aggiungere. In questa specie di sotterraneo sormontato dalle macerie di una struttura progettata per non crollare mai non arrivano le voci di fuori, non prendono i telefonini sui quali scorrono le accuse reciproche, i tanti io l’avevo detto, le ardite metafore sul destino della nazione, i piccoli opportunismi davanti a una sciagura enorme, per Genova e per l’Italia intera. Nessuno parla. C’è solo silenzio.