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 2018  agosto 15 Mercoledì calendario

Corsivi e commenti

Brooklyn

Corriere della Sera
Dello scarno comunicato che Autostrade per l’Italia ha ritenuto di dedicare al viadotticidio di Genova colpisce anzitutto l’assenza di umanità. Neanche un pensiero per le vittime, una frasetta raccattabile dal prontuario delle condoglianze. Viviamo tempi truci, dove ogni manifestazione di gentilezza è considerata sintomo di ipocrisia o, peggio, di cultura. Ma si pensava che i morti godessero ancora di un regime di extraterritorialità, tale da non rendere l’omaggio nei loro confronti un’ammissione di debolezza. Ebbene, si pensava male.Quanto al linguaggio scelto dall’estensore, il quale non ha altre colpe se non quella di avere seguito un copione prefissato, appare irto di «solette», «carri-ponte» ed espressioni decodificabili solo dagli addetti ai lavori. Come se una tragedia di queste proporzioni fosse da derubricare a disputa tra ingegneri e non riguardasse i milioni di utenti che ogni giorno versano un obolo ai caselli di Autostrade per solcare arcobaleni di calcestruzzo affacciati sul vuoto. Ma l’aspetto più triste rimane il rifiuto preventivo di qualsiasi responsabilità, che nella patria dei paraculi è una specie di riflesso spontaneo. Ci viene fatto sapere che il viadotto era «sottoposto a costante attività di vigilanza» (e meno male), però anche che la sua costruzione «risaliva agli anni 60». Come se un bollettino medico sollevasse il chirurgo dall’errore adducendo l’età del paziente. Tanto più che il ponte di Brooklyn di anni ne ha 135 e resta al suo posto senza bisogno di troppi comunicati.
Massimo Gramellini

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Colpevoli
La Stampa
Alla fine delle inchieste 
e dei processi si scoprirà 
che l’unico colpevole 
è il ponte.
Jena



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Gaetano
ItaliaOggi
Il cantautore calabrese Rino Gaetano, in una sua canzone del 1971, raccontò, quasi come fosse una premonizione, l’odissea di un giovane in fin di vita respinto dagli ospedali della capitale: «La strada molto lunga / s’andò al San Camillo / e lì non lo vollero per l’orario. / La strada tutta scura / s’andò al San Giovanni / e lì non lo accettarono per lo sciopero». Dieci anni dopo, la notte del 2 giugno 1981, alle 3,55, Rino Gaetano ebbe un incidente sulla Nomentana: si andò a schiantare contro un camion che proveniva in senso contrario. L’ambulanza dei vigili del fuoco che lo raccolse chiese ospitalità al Gemelli, al San Filippo Neri, al San Giovanni, al Cto della Garbatella. Tutto invano. Lo accolse infine il San Camillo non attrezzato per interventi di neurochirurgia. Gaetano morì alle 6,30. Dal che si capisce che, del caos romano, la Raggi, non è certo la sola responsabile.



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Saviano
il Giornale
Nel disperato tentativo di contrapporsi a Salvini, di cui non è riuscito a scalfire la crescente popolarità, perdendo di giorno in giorno la propria, Roberto Saviano scrive una didascalica articolessa su Repubblica, per spiegare che la Lega non ha capito la ’ndrangheta. Si tratta in realtà di un impressionante atto d’accusa contro la magistratura milanese. Perché capire e contrastare la mafia non è compito di un partito, ma della magistratura. Le inchieste contro la ’ndrangheta della procura di Milano hanno avuto confini limitati e incertamente definiti. Dunque Salvini deve sapere quello che non sa la magistratura? La scheda del fiancheggiatore di Saviano indica la presenza della ’ndrangheta anche in Emilia Romagna. Non risulta che il Pd in quella regione abbia fatto una speciale politica antimafia. Adesso il pallino del giornalista (condannato due volte per plagio e diffamazione) sono i rimborsi elettorali della Lega che avendo 49 milioni di soldi pubblici, secondo il fantasista doveva farli «sparire» e «riciclarli». Non usarli dunque per le spese del partito. Se Saviano voleva stimolare la magistratura ad agire sulla materia sarà servito. Con l’inevitabile processo e condanna per diffamazione.
Vittorio Sgarbi

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Strade
La Stampa
Le strade servono per trasportare cose e persone. Nell’eterna querelle sulle infrastrutture in Italia, rischiamo sempre di dimenticarlo. Le cosiddette «grandi opere» sono considerate un formidabile strumento per «creare lavoro» o, al contrario, un’immancabile «mangiatoia». Che esse servano o meno, che vadano o meno incontro a una domanda di mobilità, è un dettaglio di scarso rilievo.

Il crollo del Ponte Morandi che collegava Levante e Ponente genovese ricorderà invece a chi vive a Genova e a noi tutti la funzione primigenia delle infrastrutture. Questa frattura che ora spacca la Liguria e il Nord-Ovest sembra una metafora, amara e terribile, del nostro declino. Ma, una volta sgomberate le macerie, e mentre senz’altro continuerà a consumarsi il balletto delle responsabilità, per un’intera Regione il disagio e le difficoltà saranno tutto fuorché metaforiche. 
Il Ponte Morandi è del 1967. Non è un’opera che risale ai tempi di Appio e, forse proprio per questo, non da oggi si pensa di affiancargli un altro viadotto, all’interno della cosiddetta «gronda di Ponente», un progetto che dovrebbe decongestionare il nodo autostradale del capoluogo. In alcuni interventi del 2016, il professor Antonio Brenchich, docente di Costruzioni in cemento armato, aveva definito il ponte un «fallimento dell’ingegneria»: gli elementi strutturali da anni abbisognavano di costante manutenzione e rivelavano errori progettuali.
«Superare» per tempo il Ponte Morandi sarebbe stato senz’altro auspicabile. Il guaio è che della «gronda di Ponente» si parla dal 2001. L’autorizzazione definitiva è arrivata solo a inizio 2018.
Se per anni se ne è parlato e basta non è perché mancassero i soldi (l’austerità, ammesso che in Italia ci sia stata, non c’entra): i costi saranno in larga misura coperti dai pedaggi. Ma perché i tempi autorizzativi in Italia sono lunghissimi, sia per i grandi progetti che per quelli di modesta entità. Le perplessità e le richieste delle persone e delle comunità coinvolte non vengono, come sarebbe giusto, ascoltate e affrontate all’interno di un processo trasparente e lineare, ma diventano un veto che si somma a mille altri. La politica si divide fra chi vuole costruire consenso sulla «modernizzazione», e vorrebbe che le opere si facessero tutte, e chi savonaroleggia contro i costruttori, e vorrebbe non se ne facesse nessuna.
Da oggi c’è una città squartata, il ricordo indelebile di una tragedia in cui degli esseri umani hanno perso la vita e una Regione il cui bisogno di mobilità sarà più forte che mai. Speriamo che i lavori della gronda possano finalmente avere inizio, come preventivato, entro fine anno. Speriamo che le amministrazioni locali trovino soluzioni ragionevoli ai problemi più immediati, in una città così viabilisticamente difficile. E speriamo che da questo disastro venga un «cambiamento» nel dibattito, più concretezza e meno baruffe fra guelfi e ghibellini. Piacerebbe usare un verbo diverso da «sperare» ma proprio non si può.
Alberto Mingardi

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Sicurezza
la Repubblica
Le ore successive alla tragedia sono sempre il terreno più fertile per accuse campate in aria, esternazioni improvvide, sentenze insensate. C’è chi se la prende con i tir stranieri che pesano troppo, chi punta l’indice contro la colpevole assenza di “manutenzione ordinaria” senza probabilmente sapere ciò di cui sta parlando, e chi imputa il crollo del ponte Morandi al rigore di bilancio imposto dalle tecnocrazie antidemocratiche di Bruxelles. Non mancano neppure le difese d’ufficio, per quanto si tratti nella maggioranza dei casi di difendere l’indifendibile.
Ieri abbiamo assistito a tutto questo, senza che nessuno si assumesse la sia pur minima responsabilità per quanto è accaduto a Genova. L’ingegner Riccardo Morandi, il padre del ponte venuto giù ieri, è stato considerato a lungo il mago italiano delle grandi strutture in cemento armato, mentre la sua opera veniva eletta a orgoglio dell’ingegneria italiana. Ma quando fu costruita, più di cinquant’anni fa, non si poteva nemmeno lontanamente immaginare a quali sollecitazioni sarebbe stata sottoposta: il livello di traffico raggiunto su quella specie di tratto autostradale, che attraversa la città ligure snodandosi improbabilmente fra le case e i palazzi, sarebbe assolutamente insostenibile in qualunque metropoli del mondo. Figuriamoci a Genova, uno degli agglomerati urbani più congestionati del Paese, più congestionati d’Europa. Che un’autostrada passi lì in mezzo oggi è semplicemente una follia. Così, quel ponte era anche il simbolo arrogante di un ritardo infrastrutturale di svariati decenni. Colmato soltanto da diluvi di parole.
Né, cosa forse ancora più importante, negli anni Sessanta esistevano esperienze consolidate della durata di vita in piena efficienza di simili strutture. Non c’erano stime in alcun modo attendibili sulla scadenza del calcestruzzo precompresso per il semplice fatto che quella tecnica veniva utilizzata da pochissimo tempo. Sappiamo per giunta, come sa pure bene chi da molti anni a questa parte gestisce quel tratto di strada sospesa, che il ponte Morandi era stato già oggetto di opere di manutenzione piuttosto significative negli anni passati. E che le condizioni della struttura non fossero le stesse di cinquant’anni prima era un fatto talmente conclamato che la società Autostrade aveva bandito alla fine dello scorso mese di aprile una gara da una ventina di milioni di euro per la realizzazione, testuale, di « interventi di retrofitting strutturale » del viadotto. In parole povere, si trattava di renderlo più solido e sicuro. Vuol dire che non lo era abbastanza.
Su quel viadotto sono poi fiorite le polemiche più ustionanti fra chi giurava sulla sua tenuta centenaria e chi invece ne profetizzava il crollo imminente. Fatto sta che lì sopra hanno continuato a transitare decine di migliaia di mezzi leggeri e pesanti al giorno. E sarebbe bastato questo, oltre alla vetustà dell’opera e alla sua collocazione critica, per giustificare un monitoraggio fuori dall’ordinario. Andrà ora accertato, al di là delle tante assicurazioni che abbiamo ascoltato in queste ore, se quelle verifiche straordinarie siano state effettivamente compiute e quale peso abbiano eventualmente avuto le valutazioni sui costi.
Tanto più alla luce di alcuni precedenti assai poco rassicuranti. Negli ultimi anni i cedimenti strutturali di ponti e viadotti in Italia si sono susseguiti con una frequenza impressionante. Nell’aprile del 2017 una pattuglia dei carabinieri è scampata per miracolo al crollo del viadotto della tangenziale di Fossano. Qualche settimana prima era stata la volta di un ponte dell’autostrada A14. Mentre nell’ottobre del 2016 un cavalcavia della provinciale fra Molteno e Oggiono non aveva retto al passaggio di un tir. Per non parlare dei crolli a ripetizione in Sicilia.
Da anni i tecnici del ministero delle Infrastrutture avvertono che la sicurezza delle strutture in calcestruzzo precompresso più vecchie va messa in discussione. Lo sa, evidentemente, anche chi si occupa della manutenzione (non quella ordinaria, ovviamente) delle strade: quando infatti si rende necessaria la sostituzione delle strutture portanti di un cavalcavia traballante, sempre più spesso sono le travi d’acciaio che prendono il posto di quelle di cemento. E siccome la stragrande maggioranza dei viadotti stradali e autostradali del nostro Paese è stata realizzata con quei materiali e quelle tecniche, la cosa dev’essere presa maledettamente sul serio, alla stregua di una emergenza nazionale delle nostre infrastrutture.
A maggior ragione dopo la tragedia di Genova, sarebbe il caso che chi ha la responsabilità di guidare il Paese accantonasse i bisticci stucchevoli e pretestuosi di queste settimane sulle infrastrutture, più adatte a una campagna elettorale che a un governo, e si concentrasse sulle cose serie. Per dirne una, è necessario quanto prima avviare un piano nazionale di verifica a tappeto dello stato dei viadotti e della sicurezza delle nostre strade e autostrade. Serve molto più delle chiacchiere inutili, delle sciocchezze da dilettanti e delle macabre speculazioni politiche. Anche se forse rende decisamente meno.
Sergio Rizzo