Cominciamo da suo papà.
È vero che il suo grande rammarico è stato quello di non essere passato alla storia come un grande pilota?
«Era un uomo di una complessità enorme, penso che nessuno sappia se questo sia vero oppure no. Di certo nella sua carriera di pilota si è trovato di fronte a della gente più forte di lui. Campioni autentici di cui non ebbe difficoltà a riconoscere il maggior talento e quindi per lui fu tutto sommato naturale prendere la sua strada».
E passare alla storia per aver creato la Ferrari.
«Sì, ma guardi che forse c’è un equivoco. Per come l’ho conosciuto io, a lui non interessava passare alla storia. A lui interessava soltanto assecondare la sua passione. Adorava la velocità e le corse, e voleva che il prodotto del suo genio primeggiasse in quello sport. Detto in altri termini a lui interessava semplicemente che le sue macchine, le sue creature, il frutto del suo ingegno, vincessero tutte le gare. E basta. La storia, gli almanacchi, i giornali, erano un effetto collaterale».
Secondo lei in Italia ci sono le condizioni perché possa nascere un altro Enzo Ferrari?
«L’impressione, in effetti, è che il Paese sia cambiato molto da quei tempi. E però bisogna anche dire che di persone geniali, tecnici preparatissimi, imprenditori visionari ce ne sono stati molti e ce ne saranno altri, anche in Italia».
E allora cosa ha reso così unico nel mondoil genio di suo padre?
«Credo una combinazione di elementi tutta speciale. Lui ha individuato un campo, nel quale ha poi finito per eccellere, molto particolare: il motorsport. Un settore che combina insieme alta tecnologia, industria e sport. Tre mondi ultra competitivi che hanno creato un mix molto suggestivo, grazie al quale le sue imprese hanno potuto avere una visibilità e una popolarità straordinarie. Il talento, la passione e la dedizione hanno poi fatto il resto».
La leggenda vuole che negli ultimi giorni della sua vita Enzo Ferrari fosse ossessionato dall’Alfa Romeo.
«Non so se parlerei di ossessione. Di certo ci pensava spesso. Con l’Alfa Romeo aveva un legame speciale. La sua storia era cominciata a Milano. Si può dire che, sportivamente, fosse nato lì. Quando fu costretto a lasciarla, per lui fu un trauma. Nelle sue memorie racconta che quando nel 1951 González su Ferrari, per la prima volta nella storia dei nostri confronti diretti, si lasciò alle spalle l’intera squadra dell’Alfa, Enzo pianse. Ma erano lacrime di gioia miste a lacrime di dolore, disse. E la frase che pensò fu: ‘Ho ucciso mia madre’. Ricordo l’ultimo gran premio che vedemmo insieme, nell’agosto del 1988. Il caldo umido fuori, il rumore dei macchinari per la dialisi che si confondevano con quelli della televisione all’interno. Lui poco dopo la partenza si era assopito. In pista le Ferrari stavano andando malino. Dopo un po’ si svegliò di soprassalto, e mi chiese, ‘ma almeno le Alfa ce le siamo messe dietro?’. Le Alfa non correvano più da anni in Formula Uno… sì, ci pensava continuamente».
Dopo una lunga assenza, l’Alfa Romeo è tornata a correre quest’anno, con un motore Ferrari. Un progetto fortemente voluto da Sergio Marchionne.
«Sembra uno scherzo del destino, sì. La vicenda di Sergio mi ha umanamente devastato.
Eravamo diventati amici. Lo ammiravo moltissimo».
In molti, nei primi mesi dopo il suo arrivo in Ferrari nel 2014, hanno accostato la figura di Marchionne a quella del Drake.
«Avevano personalità molto diverse. In una cosa però, effettivamente, si assomigliavano. La loro assoluta, totale, indiscutibile dedizione all’azienda. Per entrambi il lavoro veniva prima di ogni altra cosa della vita. Per quello che è la mia esperienza, le persone normali non sono così. Ognuno ha bisogno di un momento per respirare, per pensare alla propria vita, alle cose quotidiane. Le persone normali. Loro no. Evidentemente, per cambiare il mondo bisogna fare una cosa sola, e farla con tutte le energie e tutto il tempo che hai a disposizione».
Il punto è: ne vale la pena?
«Per loro quello non era il punto».
Lei è stato l’unico a non dire una parola, nei giorni della morte di Marchionne.
«E anche adesso preferirei limitarmi a ricordare Sergio in privato. È stato un uomo immenso, non solo un grande manager. Ha salvato due aziende fallite restituendo lavoro e speranze a centinaia di migliaia di lavoratori, e non so quanti possano vantare un risultato del genere. Ma io che ho avuto la fortuna di essergli diventato, con il tempo, molto amico sono rimasto colpito dal fatto che nessuno ha messo in evidenza un dato lampante del suo carattere, la generosità. Lo hanno dipinto come un grande uomo di azienda, ma lui è stato anche una persona di grande spessore umano».
Adesso resta, però, quella sensazione di cui parlavamo prima, di "fine di un’era".
«Ma no, non finisce nessuna era. È solo la crudeltà della vita. Quello che resta davvero è il dolore per chi non c’è più».
E della Ferrari che sarà, adesso? C’è molta attesa per le scelte del nuovo management.
«Sinceramente non so cosa dirle. Sono andato in ferie e ho perso di vista l’azienda per qualche tempo».
È preoccupato?
«Sinceramente no. La vita va avanti, la Ferrari anche. È un’azienda moderna, sana, attrezzatissima, sicuramente diversa da quella che ha lasciato mio padre trent’anni fa ma che - ne sono certo - a lui sarebbe piaciuta tantissimo, perché ha gli stessi suoi valori, e guarda al futuro. Come in fondo ha sempre fatto lui nella sua esistenza».