La Stampa, 14 agosto 2018
No Vax, il terrore viene dal passato. Le obiezioni sono le stesse dall’Ottocento
Come oggi. Nel 1899, un professore di Materia Medica all’Università di Perugia, Carlo Ruata, padre di due adolescenti, inoltra al ministro dell’Interno dell’epoca – il generale Luigi Pelloux – un esposto dai toni durissimi. In allegato un’ordinanza del sindaco e il sollecito del capo d’Istituto della Scuola superiore frequentata dai suoi figli a procedere alla ri-vaccinazione contro il vaiolo. Un adempimento a cui non intendeva a nessun patto sottostare per «una sua profonda convinzione». Nella doppia veste di genitore e di igienista, polemizzava contro la rivaccinazione, che riteneva dannosa, oltre che incostituzionale e «frutto di un empirismo spinto fino al ridicolo», che obbligava «l’individuo a lasciarsi iniettare nel sangue un liquido infettante».
Capofila del nascente movimento antivaccinista in Italia, e sostenitore di mezzi di profilassi alternativi, come l’isolamento, la disinfezione, attaccava duramente i vaccini, responsabili, a suo dire, di un’infinità di danni: febbre elevata e convulsioni, flemmoni e risipole. Lui stesso, affermava, aveva visto casi di bambini «sani e robusti» diventare «macilenti, sparuti» fino a deperire e ad andare incontro alla morte. Affermazioni che, a dieci anni dall’introduzione dell’obbligo della vaccinazione in Italia (1888), trovavano su posizioni contrarie buona parte dei medici e l’agguerrito gruppo degli igienisti dai cui convegni emergeva una sola voce: «Oltre alle statistiche, fatti noti passati oramai a far parte del nostro patrimonio scientifico, dimostrano che l’influenza preservatrice della vaccinazione non può essere negata».
Si tratta di un documento attualissimo, che presenta più di un motivo d’interesse, al di là degli esiti del ricorso, così lontano nel tempo, e così vicino a noi per quanto riguarda sia il dibattito all’interno del mondo scientifico che la dinamica delle istituzioni in campo, Comuni, scuole e famiglie. Il primo riguarda i motivi dei No Vax – politico-sociali, medici, culturali – che hanno accompagnato la storia dell’antivaccinismo da sempre, aumentando con la comparsa sulla scena di nuovi vaccini: la paura delle complicazioni che danneggino in modo permanente la salute e possano persino uccidere; la contestazione dell’obbligo che comportava un’incursione dello Stato nell’ambito delle tradizionali libertà civili.
Non a caso il ricorso del professore Ruata è ricomparso oggi, acquisendo una visibilità impensabile al tempo. E non solo in Italia, dove è addirittura riproposto in copia anastatica su uno dei siti antivaccinisti più noti («Basta vaccini»). Ma anche all’estero. Il suo discorso all’inaugurazione a Perugia dell’anno accademico (1898) è citatissimo negli scritti di propaganda, dall’Inghilterra agli Usa all’Australia. Come del resto l’opuscolo pubblicato di recente dall’editore Forgotten books (An Italian Indictment of Vaccination), specializzato nel recupero di testi antichi e rari. Una conferma della globalizzazione del movimento no vax.
La Lega antivaccinista italiana, fondata dal professore perugino, indirizzerà a tutti i senatori e deputati un appello per la cancellazione dell’obbligatorietà. Ma la forza dell’antivaccinismo italiano non era neppure paragonabile a quella delle agguerriti Leghe antivacciniste inglesi, nate dopo l’introduzione dell’obbligo tra gli Anni 50 e 60 (Vaccination Act). Non c’era Internet, ma un’efficace rete di giornali, opuscoli e pubblicazioni. L’incessante propaganda culminò con l’imponente manifestazione del 1885 nella città di Leicester: 80.000-100.000 No Vax sfilarono inalberando striscioni, dietro la finta bara di un bimbo, l’effigie dell’odiato Jenner (padre dell’immunizzazione) e le scritte «Cupidigia, Ingiustizia e Crudeltà». Di fronte a tale pressione, la legge fu modificata: dichiarandosi «obiettori di coscienza» i genitori contrari potevano essere esonerati.
Dopo la grande ondata di fine 800, il movimento conobbe un’eclissi di alcuni decenni, dovuta anche ai trionfi del vaccino contro la poliomielite, una malattia che aveva assunto una drammatica importanza come problema di salute pubblica nel mondo industrializzato. Quando non uccideva, provocava danni irreparabili, cambiando per sempre la vita di chi ne era colpito. Bastava il nome – «paralisi infantile» – a evocare terrore e immagini di sedie a rotelle e arti deformi.
Una nuova ondata, con protagonisti e gruppi sociali diversi, si è messa in moto negli Anni 80. Mentre un futuro senza malattie infettive sembrava profilarsi all’orizzonte, cresceva la quota di popolazione che non aveva mai visto le conseguenze, spesso mortali, di un’infezione vaiolosa, difterica o da poliovirus. La paura dei vaccini veniva sostituita da quella degli effetti collaterali, incrociandosi con la crescente diffidenza verso la medicina convenzionale e la messa in discussione di fonti di autorità e esperienze. L’ansia di un tempo per infezioni (sifilide) i cui germi potevano essere trasmessi con la «materia vaccinale», veniva sostituita dal timore di patologie come l’autismo o il morbo di Crohn.
Una cosa è certa. La vaccinazione è una delle colonne portanti della sanità pubblica preventiva che ha ridotto drasticamente l’incidenza di gravi malattie infettive. Eppure lo scetticismo non ha mai cessato di segnarne il percorso. Cercarne le radici profonde nella storia può aiutare a capire e affrontare le tensioni di oggi.