L’Arena di Verona, 11 agosto 2018
Ritratto di Cesare De Michelis
Era lo scorso 27 aprile. Nella sua casa di Venezia, una delle poche dotate di un prato, l’editore Cesare De Michelis, morto nel sonno ieri notte a Cortina d’Ampezzo, sulla soglia dei 75 anni, si era finalmente convinto a lasciarsi intervistare, a raccontarmi la sua avventura umana e professionale. In preda a un angoscioso presentimento, avevo deciso di dare ai nostri incontri la forma che più di ogni altra gli stava a cuore: un libro. Un’idea tutta mia, alla quale lui si era sottratto con ostinazione per mesi, a dimostrazione che non aveva affatto bisogno di un consigliere, è questo il ruolo che aveva pensato di affidarmi nell’autunno del 2015: sapeva consigliarsi benissimo da solo. Pubblicare la propria biografia sotto forma di dialogo, per di più con la Marsilio, la casa editrice che lo vide accanto ai fondatori dal 1961 e che ha presieduto fino all’ultimo, gli doveva sembrare un progetto empio. Ma, per affetto, alla fine mi accontentò.
«La mamma mi diceva: “Tu sei malaticcio”. Dei suoi cinque figli, io ero il malaticcio». Non appena il Profe – titolo amorevole conferitogli dagli amici e che gli spettava di diritto – cominciò a parlarmi della propria vita, mi fu subito chiaro che in realtà voleva parlarmi della morte. Mi ritrovo ora depositario di un testamento così vasto – insegnamento universitario (in cattedra per 42 anni nel dipartimento di italianistica dell’Università di Padova), critica letteraria, imprenditoria editoriale (libri ma anche quotidiani, dal Diario di Venezia al Corriere del Veneto), collaborazioni giornalistiche (Avanti!, Corriere della Sera, Il Sole 24 Ore, Il Foglio, L’Arena, Il Gazzettino), politica, cinema, eventi culturali – da non poter essere misurato con nessun metro. De Michelis cominciò a costruirlo fin da ragazzo.
Aveva appena 8 anni quando si appassionò alla storia dell’arte. A 13 s’innamorò di Carlo Goldoni e decise che doveva studiarselo tutto, scegliendosi per maestro il professor Vittore Branca, padre di una sua amica, il quale a ogni incontro gli prestava un’edizione: 36 volumi letti in 36 settimane. A 16 scrisse il suo primo saggio su Elio Vittorini e lo mandò in lettura all’interessato. L’autore di Uomini e no lo convocò a Milano. De Michelis si presentò nella sede della Arnoldo Mondadori Editore, al numero 20 di via Bianca di Savoia, ed ebbe la sfrontatezza di spiegare a Vittorini in che cosa avesse sbagliato nella vita, concludendo: «Adesso non faccia più questi errori».
A 17 anni, quando pesava 100 chili (per questo gli amici intimi lo hanno sempre chiamato Ciccio), tornò invece a Milano a incontrare Paolo Grassi, che lo aveva diffidato dal mettere in scena a Venezia un’opera di Bertolt Brecht, della quale il fondatore del Piccolo Teatro deteneva i diritti per l’Italia. De Michelis aveva risposto all’intimazione con una lettera d’insulti: «Gentile dottor Grassi, lei è un cafone. Come si permette di diffidarmi? La libertà dove l’ha vista? Il mio progetto non aveva nulla di speculativo. Si vergogni! Lei mi sembra un bell’esempio di cultura fascista, altro che Brecht». Il risultato fu che l’impresario gli presentò subito il regista Giorgio Strehler e fra i tre nacque una solida amicizia.
Sempre a 17 anni, De Michelis, che già scriveva per l’Avanti!, conobbe Pietro Nenni, al Caffè Florian di piazza San Marco. Il vecchio leader salutò il giovanotto con slancio fraterno: «Dammi del tu, compagno». E si sentì rispondere: «Onorevole, non ho dimestichezza a dare del tu alla Storia».
De Michelis era diventato socialista per reazione contro l’invasione sovietica dell’Ungheria. Da quel 1956 il suo coriaceo anticomunismo non vacillò mai. Il suo idolo era Matteo Matteotti, che fino alla morte abitò a Verona. Con lui condivise anche la passione per il cinema. Divenne assistente regista di Giuseppe Ferrara, specializzato in film di impegno civile; del veronese Gianfranco De Bosio (Il terrorista); di Paolo e Vittorio Taviani, dai quali divorziò quando uno dei due fratelli – non ricordava chi – gli chiese a bruciapelo: «Ma tu saresti disposto a uccidere tua mamma per girare un film?». Cesare lo fissò dritto negli occhi: «Sono disposto a non fare un film».
Per sua madre Virginia, nata nel 1910 a Knittelfeld, in Austria, chiamata Noemi dai familiari, De Michelis manifestava una tenerezza inversamente proporzionale al rigore asburgico con cui lei aveva tirato su i cinque figli, rimproverandoli continuamente di essere «massa passui», troppo ben pasciuti, e obbligandoli a diventare tutti docenti universitari: Gianni, futuro ministro, Cesare, Marco, Giorgio e Marida. «Quando penso a lei, rivedo mio papà, ormai vecchio, che la guarda con gli occhi lucidi e le sussurra: “Come sei bella, Noemi”».
Il padre si chiamava Turno. Era l’ottavo dei dieci figli di un pastore evangelico registrato all’anagrafe come Rennepont. Il bisnonno, il padre di Rennepont, originario della Spezia, si convertì al protestantesimo perché, da fervente patriota, non sopportava che papa Pio IX impedisse l’Unità d’Italia. Rennepont era l’ultimo di 24 fratelli. I suoi genitori, avendo esaurito i nomi e non potendo usare quelli dei santi cattolici, lo avevano chiamato come uno dei personaggi del romanzo d’appendice I misteri di Parigi di Eugène Sue. Ma per tutti era Cesare. A lui l’editore della Marsilio doveva il suo nome.
I genitori di De Michelis hanno preceduto il loro figliolo vent’anni fa. «Prima mio padre e poi mia madre, nell’arco di soli quattro mesi», rievocava. «Così diversi e così uguali, uniti anche nella morte. Non ho ricordi di un loro litigio. La mamma vegliò papà nell’agonia per notti e notti, sempre tenendogli la mano. Compì fino in fondo il dovere di moglie assistendo impietrita alla sua sepoltura. Tornata a casa, decise di morire anche lei. Senza Turno, la sua vita non aveva più alcun senso. Del loro amore, posso solo dire che rispettò in pieno il precetto che il nonno aveva tratto da un versetto dell’evangelista Giovanni». Un’eredità morale tramandata di generazione in generazione, che il pastore Rennepont detto Cesare aveva lasciato scritta sul frontespizio della Bibbia donata a suo figlio Turno nel giorno della prima comunione e che costui riportò a sua volta sulla copia donata a Gianni, Cesare, Marco, Giorgio e Marida quando si accostarono all’Eucaristia: «A te dico quello che tuo nonno ha detto a me: sii fedele infino alla morte (Apocalisse 2, 10)».
Se mai vi fu fedeltà che un uomo seppe praticare fino alla morte, questa fu la fedeltà di De Michelis per gli adorati libri. Sono più di 100.000 quelli che restano allineati sugli scaffali della sua sbalorditiva abitazione veneziana. Di recente l’Università di Padova li aveva fatti misurare, perché il Profe, presago della fine, aveva deciso di donare la sua biblioteca all’ateneo dove trascorse più di metà della vita. I tecnici erano giunti alla conclusione che le mensole superassero il chilometro lineare, tanto da non lasciare una sola parete libera in tutta la casa.
Prima di rallentare «in quest’ultimo semestre infernale», così mi confidò a maggio, prostrato da un tumore scoperto a gennaio nell’unico polmone che gli rimaneva (il destro glielo aveva portato via lo stesso male nel 1989), da un infarto a novembre e da un morbo di Hodgkin nel 2014, il Profe leggeva circa 1.000 libri l’anno, fra editi e inediti. Di questi, solo 10 o 12, in genere di esordienti, arrivavano in libreria con il logo Marsilio. Una scrematura severissima, quella del talent scout lagunare, dalla quale sono passate Susanna Tamaro, Margaret Mazzantini e Chiara Gamberale per la narrativa, pronte a tradirlo con altri editori non appena agguantato il successo, e i bestselleristi Stieg Larsson, Henning Mankell, David Lagercrantz, Camilla Läckberg, Roberto Costantini per la giallistica.
De Michelis aveva due massime, in bilico perenne tra fervore intellettuale e oculatezza impreditoriale. La prima: «È meglio vendere i libri che si fanno che fare i libri che si vendono». La seconda: «I libri si vendono uno alla volta». Non si vergognava, ma non andava nemmeno orgoglioso, del fatto che il primo strepitoso exploit della Marsilio fosse stato un saggio, Il sesso in confessionale, nato da 112 registrazioni che due finti penitenti, Norberto Valentini e Clara Di Meglio, avevano effettuato nelle chiese italiane, confessando peccati immaginari al solo scopo di sondare come venivano valutati dai ministri del sacramento della penitenza. Un’operazione spregiudicata che costò la scomunica a tutti coloro che vi avevano partecipato, incluso il tipografo, il quale si mise a piangere e si rifiutò di ristampare il libro. «Non volevamo curiosare nelle coscienze altrui ma solo capire se l’inevitabile sentenza del prete fosse senza appello oppure no», si autoassolveva con me il protestante De Michelis. «In questo non vi era alcun intento blasfemo. Si sarebbe potuto ragionarne con più calma, anche a costo di vendere qualche copia in meno». Era sicuramente contento di aver ottenuto, a distanza di quasi mezzo secolo dal fattaccio, una sorta di indulgenza plenaria, rappresentata dai libri editi da Marsilio – più d’uno – recanti la firma di papa Francesco.
Pur essendo insuperabile in una dialettica dai toni perentori, che d’istinto lo portava a risponderti «nero» se tu dicevi «bianco», De Michelis ha sempre coltivato con esemplare integrità d’animo le ragioni del dubbio.
Dopo l’infarto, i medici avevano tentato invano per tre volte di allargargli l’arteria coronarica. «Forse devo morire, semplicemente», mi spiegò sereno. Poi soggiunse: «È brutto a dirsi, ma ho sempre pensato una cosa degli uomini privi di una famiglia e cioè che sono sfortunati».
È stato fortunato, il Profe. Ha avuto una moglie, Emanuela Bassetti, che gli è stata complementare nella vita e nel lavoro di editore, e due figli, Luca e Giulia, che hanno rinunciato a promettenti carriere all’estero per tornare in Italia ad accudire la Marsilio.
L’ultima volta che ci siamo visti, a Venezia, mi aveva promesso di portarsi in vacanza a Cortina il «nostro» libro, del quale gli era piaciuto soprattutto il titolo, In cerca d’autore, perché rappresenta una sintesi perfetta delle fatiche terrene sopportate dal decano degli editori italiani. Però aveva deciso d’imperio che non dovesse uscire né in autunno, né a Natale, «meglio a gennaio 2019». Non lo vedrà stampato, beffa suprema per un editore.
Gli regalai, quel 10 luglio, un libricino con dedica del nostro comune amico Riccardo Ruggeri, anche lui alle prese con un tumore. Lesse il titolo: Il cancro è una comunicazione di Dio. Da bastian contrario irrecuperabile, sbuffò: «Non lo direi mai. Il cancro è, molto più banalmente, una degenerazione delle cellule. Il Padreterno ha creato la vita, che ha dentro di sé anche la morte. Sono sicurissimo che Dio esiste. Ma sono altrettanto sicurissimo che non si occupa di me». E qui, per una volta, il Profe si è sbagliato.
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