la Repubblica, 13 agosto 2018
Scolpita nella roccia la fine dell’Isola di Pasqua
È tempo forse di riscrivere la storia dell’isola di Pasqua e del destino misterioso dei suoi abitanti. I polinesiani la chiamano Rapa Nui e al primo occidentale che vi sbarcò nel 1722 – l’esploratore olandese Jacob Roggeveen – apparve come brulla e inospitale, dominata da centinaia di statue giganti in pietra. Chiamati Moai, dovevano essere il simbolo di una civiltà fiorente, ma stridevano con la desolazione del paesaggio circostante.
Nell’immaginario collettivo quell’isola sperduta nel Pacifico è diventata così simbolo e monito: una popolazione che, spinta da un’intensa competizione tra gruppi, sfrutta oltre misura le risorse del proprio territorio, fin quasi a disboscarlo, per issare Moai sempre più imponenti e si condanna all’estinzione.
Andò davvero così? Nuovi elementi raccontano oggi una storia diversa rispetto alla tesi dell’ecocidio, resa famosa da Jared Diamond in Collasso. «È una ricostruzione probabilmente esagerata», spiega l’archeologo Dale Simpson jr. «La presenza di una vera e propria industria dell’intaglio della pietra rappresenta per me una prova solida del clima collaborativo che esisteva tra famiglie e gruppi di artigiani».
Simpson firma infatti – con Laure Dussubieux del Field Museum e Jo Anne Van Tilburg, direttrice dell’Easter Island Statue Project – un nuovo studio pubblicato sul Journal of Pacific Archaeology che ribalta la narrazione corrente. I ricercatori hanno analizzato la composizione chimica degli strumenti utilizzati per scolpire i Moai ricavati dal basalto. «È una roccia vulcanica grigiastra che a prima vista non sembra nulla di speciale. L’analisi chimica di campioni provenienti da fonti diverse rivela però differenze molto sottili nella concentrazione dei diversi elementi, che variano in base alla geologia del sito di provenienza» spiega Laure Dussubieux.
Ebbene, dei 21 attrezzi analizzati dai ricercatori 17 arrivavano dallo stesso giacimento. Un’incidenza che lo studio considera significativa, perché dimostrerebbe che gli abitanti dell’Isola di Pasqua, pur divisi in diversi clan insediati in specifici territori, condividevano la stessa risorsa e che l’intaglio dei Moai era una impresa collaborativa e non competitiva.
«La ricerca si inscrive in una recente tendenza a studiare e valorizzare il ruolo dell’azione collettiva in società antiche che troppo spesso immaginiamo come conflittuali e autoritarie», commenta Davide Domenici, antropologo e ricercatore dell’Università di Bologna, che ha partecipato a spedizioni sull’isola di Pasqua. «La conclusione a mio parere è un po’ debole perché si basa su un numero molto ristretto di campioni, visto che nel solo scavo che ha dato origine allo studio sono state rinvenute più di 1600 asce».
Anche Jo Anne Van Tilburg, che dello scavo è stata direttrice, dice che i risultati dello studio vanno interpretati con cautela: la condivisione c’era – spiega – ma non si può stabilire ancora se fosse genuina collaborazione. «Van Tilburg riconosce che l’uso diffuso di una stessa risorsa potrebbe essere stato determinato da altri fattori, inclusa la coercizione», conferma Domenici. «Ma è anche vero che la teoria del collasso, resa celebre dalla versione estrema di Diamond, è stata da tempo superata da ricerche come quelle di Terry Hunt e Carl Lipo. Questi studiosi hanno infatti dimostrato che se mai un collasso ha colpito la civiltà pasquense, le sue ragioni vanno rintracciate non in una parossistica competizione interna ma nell’arrivo di esploratori, schiavisti e allevatori europei a partire dal XVIII secolo. Conflittuali o meno che fossero, e per quanto ne sappiamo le antiche società polinesiane come quella pasquense lo erano non poco, agli abitanti dell’Isola di Pasqua toccò vivere una tragedia la cui dinamica ci è purtroppo ben nota, perché motivo ricorrente della storia coloniale europea».