Corriere della Sera, 13 agosto 2018
Tim Rice, il signore dei musical
Se i tre Premi Oscar lo lasciano tutto sommato indifferente perché i riconoscimenti «non bisogna mai prenderli troppo sul serio», è parlando dei suoi musical che Tim Rice si entusiasma. Da Jesus Christ Superstar aEvita, fino a Il Re Leone, portano la sua firma i testi di tanti capolavori che riempiono i teatri da decenni. Con Andrew Lloyd Webber ha contribuito a scrivere la storia del genere. E da buon padre artistico, questo baronetto inglese di 73 anni ama seguire le sue creature in giro per il mondo, come accadrà domani, quando sarà all’Arena di Verona per Jesus Christ Superstar, spettatore d’eccezione della versione originale, con produzione italiana, Massimo Romeo Piparo alla regia e Ted Neeley, lo storico Cristo sin dal film del 1973.
Non le sembra curioso un 74enne nel ruolo di Gesù che morì a 33?
«Ted è eccezionale: è un mio buon amico da 40 anni ed è bravo come allora».
Questa opera rock è sui palchi dal 1970. Che cosa cattura ancora gli spettatori?
«Al di là dello spettacolo, la storia di Gesù è un pilastro della cultura europea e occidentale: tutti hanno una propria opinione, credenti o non, e penso che noi, quasi mezzo secolo fa, l’abbiamo raccontata in modo originale».
Se dovesse scriverla oggi, che approccio userebbe?
«Non potrei, dovrebbero pensarci dei giovani. Quel che aiutò noi, al tempo, è che non sapevamo esattamente quello che stavamo facendo. Siamo partiti dal disco. Una volta finito, abbiamo visto che poteva funzionare come opera rock a teatro: non volevamo un musical convenzionale».
Ci sono giovani bravi nel musical oggi?
«Ce ne sono nella musica, da George Ezra a Ed Sheeran ad Adele. A teatro è più difficile, ma c’è Lin-Manuel Miranda che ammiro molto. Ha scritto Hamilton, un musical moderno (premio Pulitzer nel 2016, ndr) che, appunto, avrebbe potuto essere scritto solo da una mente giovane».
Quando conobbe Webber lei aveva 20 anni e lui 17. Il sodalizio però è finito da tempo...
«Abbiamo lavorato insieme per 10 anni, ma è stato tanto tempo fa. Eravamo entrambi abbastanza bravi in quel facevamo ed eravamo molto diversi nell’approccio. Andrew era tradizionale e io meno. Lui conosceva le regole, sapeva cosa fa funzionare uno spettacolo. Questa combinazione ha funzionato. Ma ora abbiamo gusti diversi. E ora c’è bisogno di gente giovane. Non credo che nessun giovane sano di mente lavorerebbe con uno di noi due».
Per Evita fece un anno di ricerche. Cosa le piaceva del personaggio?
«Era divisiva, ispirazione per alcuni, odiata da altri».
E l’interpretazione di Madonna nel film la convinse?
«Molto, penso sia stato uno dei ruoli più convincenti che ha fatto al cinema».
Quali considera i momenti migliori della sua carriera?
«Il primo grande successo è sempre memorabile perché non pensi mai davvero che avrai successo. E quando il disco di Jesus Christ Superstar ha raggiunto il numero 1 in America è stato incredibile».
E gli Oscar?
«Ah già, li stavo dimenticando. I premi sono una bella cosa, ma non bisogna mai prenderli troppo sul serio».
Per Il Re Leone, uno dei tre Oscar, lavorò con Elton John e fu lei a suggerirlo alla Disney.
«Non ero molto ottimista sul fatto che avrebbe accettato, invece fece un lavoro meraviglioso: per me fu una sfida interessante perché partimmo dai testi, mentre di solito viene prima la musica delle parole. Glieli mandavo, via fax o con quel che si usava in quel periodo, e lui ci scriveva le musiche, mandandomele dopo un paio di giorni».
È in arrivo un remake?
«Sì, io ed Elton stiamo lavorando a risistemare un paio di brani. Non sono stato molto coinvolto nel remake, ma se vogliono una canzone, sarò felice di farla».
Con Laura Pausini lavorò alla versione inglese di La Solitudine.
«È una canzone stupenda e lei è bravissima. Avevamo registrato a Milano e ne era uscita una bella versione anche se con meno pathos dell’originale. Sarebbe interessante vederla in un musical italiano, penso che sarebbe fenomenale».
In Italia i musical non attecchiscono come nel West End o a Broadway.
«Vi siete difesi in passato con personaggi come Puccini o con un certo Da Ponte che scriveva per un giovane ragazzo chiamato Mozart. Forse una parte del problema è la lingua, l’inglese è così universale, soprattutto nel pop. Ma se qualcuno in Italia scrivesse un buon musical sarei interessato a vederlo e magari ci sarebbe bisogno di uno come me per tradurlo. Nel frattempo, però, avete La bohème, quindi vi va piuttosto bene».