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 2018  agosto 13 Lunedì calendario

In morte di V.S. Naipaul

Giorgio Montefoschi per il Corriere della Sera
Scompare con V.S. Naipaul uno dei maggiori scrittori del secolo scorso, romanziere di classe superiore, facilitato, se così si può dire, nel suo successo internazionale (che, infatti, gli valse il Premio Nobel per la Letteratura) da quel «valore aggiunto» alle sue opere che ad altri scrittori occidentali, magari di pari valore, è mancato nei medesimi anni, relegandoli nelle retrovie della fama. Questo «valore aggiunto», continuo a chiamarlo in questo modo, consiste nel «fortunato» – anche se assai spesso doloroso – incontro del cammino di uno scrittore con i grandi temi del momento storico in cui è vissuto, nonché in una sorta di confine geografico determinato dal suo luogo di nascita e dalla sua provenienza razziale. È, tale valore «aggiunto», un elemento di interesse, di forza, di attrazione – per il lettore che vive in un mondo completamente diverso, per nulla scalfito, o soltanto lontanamente consapevole di certe realtà la cui narrazione e la cui descrizione sono affidate a una letteratura «antica» o di genere – un elemento fondamentale di vitalità, una spinta della curiosità al nuovo, che fanno dei romanzi di questo scrittore «fortunato» uno scrittore imprescindibile. Quando poi, come nel caso di V.S. Naipaul, all’«esotismo» delle vicende e dei personaggi, si accoppia la straordinaria perizia letteraria, ecco che ci troviamo di fronte a uno scrittore magnifico, di cui bisogna leggere tutto, ma proprio tutto. 
Nato nell’isola di Trinidad da genitori induisti, e vissuto fino alla prima giovinezza in un ambiente tipicamente induista, dunque a tutti gli effetti indiano, Naipaul arriva alla fama internazionale con quello che, secondo molti (me compreso) è considerato il suo capolavoro: Una casa per Mr. Biswas. Questo è un romanzo possente, molto divertente, pieno di personaggi, ricco di tutte le tipologie famigliari (la suocera, il suocero, i vari parenti, gli amici invadenti perché troppo gentili, i seccatori, i bambini, gli animali, le tradizioni, gli obblighi, e via discorrendo) che presto avremmo imparato a riconoscere nella successiva esplosione della narrativa indiana, che possiede l’impianto e la ricchezza che, in Occidente, avevano e hanno soltanto i romanzi di Dickens. Un giorno, il ragazzo che ci ha precipitato in questo mondo così complicato, confuso, dispersivo e forse troppo (per lui) coinvolgente, decide di abbandonare la famiglia e le sue tradizioni e di trasferirsi in Inghilterra. Il frutto di questo viaggio – animato da una ricerca profonda di novità, da un senso drammatico di spaesamento, da una sorta di rancore preventivo – è un altro romanzo (difficile, ma notevole) di Naipaul, che si intitola L’enigma dell’arrivo. Qui, il tradizionale viaggio letterario verso l’India, culminato dal romanzo che batte ogni altro romanzo del genere per profondità e destrezza di stile, vale a dire Passaggio in India di Edward Morgan Forster, è completamente capovolto. Non siamo più «noi» che andiamo: sono «loro» che vengono; non siamo più «noi» che guardiamo e ci stupiamo, sono «loro» che guardano e si stupiscono; non siamo più «noi» che non capiamo e ci troviamo di fronte a dei muri invalicabili o a delle imboccature di misteriose caverne, sono «loro» che non capiscono, che vedono innalzarsi muri di diffidenza e di incomprensione, e faticano, faticano terribilmente per mettere da parte quel rancore preventivo e adattarsi alla nuova vita verso la quale sono stati sospinti dai movimenti del mondo.
C’è infine il romanzo conradiano, di Naipaul, intitolato Sull’ansa del fiume, ambientato nel mondo cosmopolita dei trafficanti della East coast africana (cinesi, indiani, arabi, europei, diplomatici occidentali semidistrutti dall’alcol) che va letto a tutti i costi. Questo romanzo è praticamente il contrario di Cuore di tenebra. Perché anche in questo romanzo la presenza di un battello sempre in procinto di partire verso il centro del continente oscuro è fondamentale, ma appunto «al contrario» rispetto al romanzo di Conrad, in quanto veicolo di salvezza dal male che è sulla costa, dalla corruzione, dal torbido mondo che, soltanto pochi decenni fa, ha creato in quel luogo disgraziato dell’Africa, dopo le ferite del colonialismo, tutte le condizioni dell’attuale disperazione.
Occidente e Oriente, restare o partire, pelle bianca e pelle scura, miseria o ricchezza? Quale altro scrittore poteva anticipare nella sua opera, testarda e dura, temi così attuali? Quale altro scrittore – di superbo talento – poteva con tanta caparbietà e tanta «sprezzatura sentimentale», descrivere le premesse drammatiche, affondate nel fango dell’ignoranza o dell’ignavia, delle realtà nelle quali viviamo? Naipaul lo ha fatto senza indulgere a neppure un briciolo di folclore, senza piegarsi a nessun vezzo, a quelle pennellate di maniera che attraggono sulle prime il lettore e svaniscono appena tracciate. Perché Naipaul è uno scrittore implacabile. Lo scrittore «necessario» (basta leggere il reportage Un’area di tenebra in cui descrive il suo ritorno in India, con tutto il fastidio che può esprimere un essere umano che ama il suo Paese). Lo scrittore al quale si poteva perdonare persino il suo leggendario cattivo carattere.

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Camillo Langone per il Giornale
È morto il Nobel della superiorità occidentale. Nel 2001 V.S. Naipaul aveva vinto il premio svedese perché i parrucconi terzomondialisti dell’Accademia di Stoccolma dei suoi libri non avevano capito molto, si erano fatti ingannare dal colore della pelle, effettivamente scuretto, e se ne erano usciti con una motivazione che avrebbe potuto funzionare con dozzine di altri autori di tutt’altro orientamento: «Per aver unito una descrizione percettiva a un esame accurato incorruttibile costringendoci a vedere la presenza di storie soppresse». In crisi di idee come si ritrovano la potrebbero riciclare per premiare prossimamente l’africanofilo Edoardo Albinati, lo scrittore che va in Niger con la fidanzata e scopre che gli indigeni sono tanto belli e tanto buoni, tutto il contrario di noi europei brutti e cattivi e magari perfino elettori di Salvini.

Ecco, lo scrittore anglo-indo-caraibico è stato capace di dirci, con una prosa smagliante e senza mai cedere ad atteggiamenti militanti, immediatamente politici, che non tutte le civiltà sono uguali e che la civiltà occidentale è la migliore. Andatevi a leggere La maschera dell’Africa e scoprirete perché il bestsellerista inglese Robert Harris, un bianco col complesso del biancore, lo ha definito «razzista e tossico». 
Andatevelo a leggere prima che il masochismo relativista lo censuri come sta accadendo con Kipling. «Nonostante l’oro e la gloria, il regno ashanti non conosceva la scrittura. Per vederlo come qualcosa di grandioso occorreva essere un Ashanti e consultare (in assenza di rovine spettacolari) gli struggimenti del cuore». E così, con poche parole, l’indiano nato nei Caraibi sotto il dominio britannico (Trinidad nel 1932 era parte dell’impero su cui imperava Giorgio V, il nonno di Elisabetta) liquida l’Africa pre-coloniale e riabilita il colonialismo che a sud del Sahara portò la scrittura e dunque la legge, la ragione, la scienza. Portò anche una religione, il cristianesimo, che proibì i sacrifici umani tipici del paganesimo. 
Nel capitolo dedicato all’Uganda, dopo aver visitato un monumento del 1881 Naipaul scrive: «Durante la costruzione del mausoleo erano stati sacrificati nove uomini. Il principe Kassim mi spiegò che un tempo i sacrifici umani erano pratica comune quando si innalzavano le colonne di una tomba». Questa è l’Africa e non è per comodità che uso il tempo presente: nel Continente Nero il ventunesimo secolo sta ricongiungendosi col diciannovesimo, in Sudafrica la fine dell’apartheid ha riportato in auge i sacrifici animali come viene raccontato in un capitolo di questo libro che tutti gli invasionisti (chiamo invasionisti coloro che parteggiano per sbarchi, ricongiungimenti, insediamenti africani in Italia) dovrebbero leggere. 
Forse a Stoccolma non se ne sono accorti ma Naipaul ha avuto il coraggio di descrivere il razzismo africano (il razzismo dei neri nei confronti dei bianchi e il razzismo delle tribù nere nei confronti delle altre tribù nere), in passaggi che tralascio di virgolettare perché finirei subito lo spazio. Ripeto, andatevelo a leggere, La maschera dell’Africa. Se poi giustamente temete anche l’islam aggiungo come consiglio di ferragosto Fedeli a oltranza, sempre Adelphi, libro-reportage sui danni causati dal Corano in Indonesia, Iran, Pakistan, Malesia. Viene da apparentarlo a Oriana Fallaci, Naipaul, anche per il carattere indomito. Non era il Nobel della simpatia bensì un vecchio signore conservatore geloso della propria libertà di giudizio e di espressione.
Ci sia di esempio.

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Paolo Di Paolo per la Repubblica
Per mostrare gli scheletri nell’armadio c’è sempre tempo. Soprattutto se, da vivo, lo tieni chiuso bene. L’appena scomparso V.S. Naipaul, baronetto e Premio Nobel per la letteratura legittimamente pianto dall’ultima moglie come «gigante in tutto ciò che ha fatto» - ha tenuto il suo armadio sempre spalancato. E se la biografia autorizzatissima ne forniva, già anni fa, un ritratto più che sulfureo - con una sequenza di atti da vera carogna, da arrogante, da puttaniere senza rimorsi quasi tutte le sue uscite pubbliche completavano il quadro. Cattivissimo lui. Al festival di Mantova se ne andò stizzito, interrompendo l’incontro di cui era protagonista. Si era fatto la fama di inavvicinabile. Un vero bastardo, disse - per tempo - il critico letterario James Wood.
Post mortem, il pur amichevole e rattristato Salman Rushdie ha precisato di non essere d’accordo con Naipaul «su tutti gli aspetti della vita, della politica», eccetera. Joyce Carol Oates, in un tweet, ha tenuto a distinguere il grande scrittore dall’individuo "very human". Nemmeno troppo sibillina, dando a intendere che ne avrebbe da raccontare. Meglio di no. È curioso che, una volta tanto, sulla celebrazione del caro estinto si addensino nuvole nere. All’interessato sarebbe dispiaciuto? Forse no. Era un "mostro onesto", come qualcuno ha scritto in queste ore? Vecchia questione: come si mette insieme un essere umano, il suo peggio, e il meglio che lascia. Il Naipaul dei grandi libri, con la sua intelligenza «fissata al mondo degli umani e alla natura» - così Teju Cole sul New Yorker, saldando il suo debito di "allievo" - e l’altro insopportabile Naipaul. Rompicapo per romanzieri!
Fatto è che sir Vidia, nato a Trinidad da genitori indiani di casta braminica, con le sue contorte radici, con le ferite dell’escluso, sembrava aver lasciato alla letteratura l’empatia e alla quotidianità la spietatezza. E la sua barbetta gli dava un’aria da troll ante litteram, provocatore in servizio permanente e non virtuale; algido e dispettoso, indisponibile alla mansuetudine. Quel "dolore vero" che richiama nelle pagine intensissime di L’enigma dell’arrivo può spiegare? Forse un po’, ma a che serve? Parlando della scomparsa della sorella, confessava di avere, in quell’occasione, fatto i conti con la morte, con la vera religione, con la sofferenza e la gioia, con «l’uomo e la vita come mistero». E quella «stupefatta perplessità sugli uomini», di cui spesso parlava, ora riguarda anche lui.