Corriere della Sera, 13 agosto 2018
Una bella intervista a Dino Meneghin
Dino Meneghin, come si vede l’Italia dall’alto di 204 centimetri? Il nume tutelare del basket italiano ha una risposta che riguarda gli aspetti pratici della quotidianità (e le controindicazioni della statura), e una che raccoglie la traccia metaforica della domanda. La prima: «È una visione scomoda. Non immaginate, per dire, quanto a Milano siano per me una minaccia gli autobus che circolano contromano nelle corsie preferenziali, spesso rasenti ai marciapiedi: gli specchi retrovisori esterni sono alla mia altezza, una volta ho preso uno spavento tremendo».
La metafora, invece?
«Mezzo secolo di viaggi mi ha permesso di capire come ci vedono all’estero: l’Italia ha enormi potenzialità, ma non sempre le esprime. La cosa che mi fa più male è che i giudizi positivi sono soverchiati dall’idea che, sotto sotto, siamo dei mafiosi. Inaccettabile».
Dino Meneghin vivrebbe in un altro Paese?
«Da ragazzo volevo andare in Svizzera: mi piaceva il suo sistema di vita. E mi piace ancora oggi: passi il confine ed entri in un altro mondo, ordinato ed efficiente. Poi però ripenso all’Italia e realizzo che non la lascerei mai».
Le diamo le chiavi delle porte del tempo: apre quella del passato o quella del futuro?
«Quella del futuro, tenendo però una finestra sul passato. È sbagliato scordarlo, regala esperienza. Quanto al futuro, apro la sua porta perché, pur avendo 68 anni, penso a che cosa farò fra cinque o dieci».
Si stava meglio nei magici anni 60 e nei tormentati 70 di un’ Italia con tanti problemi ma probabilmente più genuina di quella di oggi?
«Forse sì. Aggiungerei pure gli anni 80: in quel periodo il Paese era in continua evoluzione; c’erano fermento e voglia di fare, la vita quotidiana era piena di verve».
Dalle porte ai porti: li chiuderebbe o li terrebbe aperti?
«Li aprirei solo per donne e bambini, aggiungendo però che è giusto salvare chi rischia di morire in mare: sarebbe folle non intervenire. Però il discorso è da allargare».
Allarghiamolo, allora.
«A Milano passate da viale Monza, dove opera l’associazione “Pane quotidiano”. Ogni giorno sfama, gratis, chi ha poco o nulla: la fila è interminabile, in coda ci sono tanti anziani. Tutti italiani. Poi andate a piazzale Susa: troverete gruppi di extracomunitari che non fanno nulla per tutto il giorno. Abbiamo 7 milioni di disoccupati e quasi 5 milioni di poveri assoluti, e migliaia di giovani che vanno all’estero a cercare lavoro. Perché da un lato dobbiamo accogliere i migranti e dall’altro perdere questi ragazzi, cioè il nostro futuro, oltre a non saper dare condizioni migliori a una fetta non trascurabile della popolazione?».
Porti chiusi, allora...
«Non l’ho detto: li aprirei solo per donne e bambini, i più deboli. Ma al contempo dovrebbe partire un piano Marshall per aiutare i Paesi in difficoltà: mantenere chi sbarca costa circa 1.000 euro al mese; quei soldi, a casa sua, avrebbero un peso differente, anche psicologico. Vengo da una famiglia di emigranti, avevo uno zio in Canada e mio nonno andò in Nuova Zelanda: so quanto sia duro espatriare».
Che cosa le piace e che cosa invece non gradisce della nuova classe politica al governo?
«Mi va la voglia di provare a cambiare le cose. Centrodestra e centrosinistra ci hanno portato a questa situazione: non siamo messi bene. Verifichiamo che cosa sanno fare questi».
In Italia si gioca di squadra?
«No. Il Parlamento somiglia a un condominio, luogo perfetto per litigare. Ma a fine assemblea si esce con una soluzione per il bene comune. Invece alla Camera e al Senato si approva sì a maggioranza, ma spesso per convenienze di parte e non per l’interesse generale».
Il nostro sport è al passo con i tempi?
«Non lo è mai stato, dal punto di vista educativo. Io sono innamorato del sistema americano, per la straordinaria disponibilità di impianti e per il concetto che l’attività fisica è centrale. In Italia, invece, non abbiamo strutture e l’ora di ginnastica è vista come una rottura di scatole o, se va bene, come uno svago. Io equiparerei l’educazione fisica a lettere e matematica: aiuterebbe a combattere fenomeni come l’obesità infantile e il bullismo».
Chi sono gli italiani migliori, nella sua «hit parade»?
«Quelli che hanno avuto l’idea dell’Italia e si sono battuti per unirla: quindi i Mazzini, i Cavour, i Garibaldi».
C’è una ricetta vera per l’Europa?
«Pensavo a qualcosa di più coinvolgente, ma abbiamo solo la moneta e la libera circolazione. Il costo della vita è aumentato: l’euro avrà salvato l’Italia dal crac, ma ha messo tanti in ginocchio. Non abbiamo un esercito unico e non avremo mai una lingua comune. La bandiera non ha lo stesso valore di quella degli Usa, è un di più a fianco di quelle nazionali. Un’Europa diversa l’avremo forse tra un secolo».
La Nba ha aperto le porte a cestisti di tutto il mondo, nel basket girano sempre più soldi: le dispiace di essere nato nell’era sbagliata?
«Sì, con tutto il rispetto per la mia carriera. Lo dicevo a papà: se mi avesse concepito 20 anni dopo avrei “surfato” su un’onda di dollari».
Da juventino, avrebbe ingaggiato Cristiano Ronaldo?
«D’acchito dico di sì».
Ma tutti quei quattrini...
«Il calcio è uno sport professionistico e gli investimenti sono il suo motore. Certe operazioni muovono un indotto, generando ritorni e occupazione».
Gli operai di Melfi e Mirafiori eccepiscono.
«Dal loro punto di vista hanno ragione a incavolarsi, ma si rischia di mescolare le pere con le mele: i loro problemi vanno risolti a prescindere da Ronaldo e dal suo ingaggio».
La Tv continuerà a drenare spettatori dagli impianti?
«Il rischio esiste. Sono sempre più probabili scenari alla Fantozzi: partita in tv, pizza, birra gelata e rutto libero. Ma spero che le nuove generazioni siano educate da papà che insegnano il piacere di seguire dal vivo una partita».
Telefonini, tablet, pc: Meneghin, uomo degli anni 50, è in sintonia con la tecnologia?
«I telefonini sono di una comodità unica, ma i termini tecnici mi spiazzano. Eppure la tecnologia, a giuste dosi, è utile».
I tifosi urlavano «Dino, picchia!»: Meneghin ne ha prese o ne ha date di più?
«Bilancio pari. Picchiavo – intendo duri contatti fisici – solo se ero stuzzicato. Dovevo spiegare che non avevo paura: altrimenti contro certi “cristoni” non avrei avuto scampo».
Nello sport bisogna essere sempre leali o si può essere un po’ cattivi?
«Occorre essere solo leali, altrimenti tutto va a catafascio».
Se potesse cambiare qualcosa, che cosa non farebbe più?
«Non rinuncerei alla Summer League, anticamera della Nba: mi sarei misurato con la chance di entrare nel basket “pro”. Vorrei anche cancellare, rigiocandola, la finale di Coppa dei Campioni 1983 a Grenoble. Perdemmo contro Cantù, fu la mia partita più brutta. Era il primo anno con Milano dopo 10 finali europee consecutive con Varese: all’Olimpia si aspettavano fossi una guida, ma... sbagliai strada”.
Che cosa avrebbe fatto Meneghin se non fosse stato cestista?
«L’architetto. Mi ero iscritto, ma era il periodo della contestazione: partivo alle 6 da Varese, però spesso le lezioni saltavano. Io dovevo poi tornare a casa e andare ad allenarmi: dopo un po’ mi sono scocciato e ho mollato».
Moshe Dayan l’avrebbe arruolata nel suo esercito.
«Anche no, grazie...».
Ma per lui e per gli israeliani lei era il Guerriero con la «g» maiuscola.
«Metaforicamente, però. Ho avuto il piacere di conoscere Dayan, credo pensasse al cestista-guerriero, non al soldato».
A Varese, nella Ignis, avete vinto tutto perché in quella squadra c’era lo spirito dei personaggi del film «Amici miei».
«Vero. Pure a Milano ho trovato un’atmosfera simile. Si viveva insieme, l’invidia stava a zero: a fine partita, nessuno controllava il proprio scout, l’importante era aver vinto».
All’Olimpia ha vissuto gli anni della «Milano da bere».
«E ce la siamo bevuta... Ci ha aiutato: il basket è sempre stato importante per la città, ma in quel periodo siamo diventati una moda e abbiamo intercettato il pubblico del calcio».
Dino Meneghin avanza qualche segreto da raccontare?
«Dopo 50 anni in mezzo ai giornalisti, ne sapete più voi. Non ho nulla di speciale da svelare, ma nemmeno scheletri da nascondere».