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 2018  agosto 13 Lunedì calendario

Quei batteri negli ospedali che resistono a tutti gli antibiotici

Chissà quanti, nel leggere del neonato dell’Ospedale di Brescia, si saranno chiesti come sia possibile che nel 2018 una vita appena cominciata debba già finire per le conseguenze di un’infezione mai sentita, da Serratia marcescens appunto. Invece può succedere e di fatto succede, da noi (in Italia muoiono di infezioni contratte in ospedale settemila persone l’anno) come negli altri Paesi d’Europa, come anche negli Stati Uniti – in America Latina e in Asia le vittime sono molte di più —. E succede soprattutto nelle terapie intensive. 
Ma perché proprio lì? È in questi reparti che ci sono i pazienti più fragili, tante volte immunocompromessi, trattati – ed è giusto così – con antibiotici ad ampio spettro per curarne altre di infezioni, altrettanto gravi. Così col passare degli anni si sono selezionati ceppi di batteri molto pericolosi che resistono a tutti gli antibiotici o quasi. E poi in terapia intensiva ci sono cateteri, tubi di ogni genere, si fanno tracheotomie e fori nello stomaco per chi non può alimentarsi. Tutte cose necessarie, intendiamoci, che purtroppo favoriscono le infezioni ospedaliere: affliggono il 20 per cento di chi è sottoposto a cure intensive, da noi come in Francia, in Inghilterra e negli Stati Uniti. 
Che fare? In tutti i grandi ospedali del mondo ormai ci sono regole ferree create proprio per aiutare medici e infermieri a prevenire le infezioni. Funzionano, ma solo un po’. Anche perché nelle terapie intensive i germi colonizzano tutto, non solo i dispositivi medici ma tutto quello che c’è intorno: supporti, sponde dei letti, computer, telefonini e persino i disinfettanti. Si sterilizza quello che si può, ma più fai e più non basta. La cosa fondamentale resta lavarsi – benissimo – le mani. 
Quanto ai neonati, di tutti quelli che muoiono al mondo il 30 per cento non ce la fa a causa di infezioni (dal 3 al 10 per cento nei Paesi ricchi, ma in Africa si arriva al 75 per cento). Nonostante tutto dalla metà dell’Ottocento – quando era più pericoloso farsi operare che andare in guerra – a oggi i progressi sono stati enormi e continuano, anno dopo anno; non arriveremo però a eliminare del tutto le infezioni ospedaliere, non nei prossimi 20 anni quanto meno. 
Il motivo sta anche nel fatto che certi batteri hanno imparato a resistere agli antibiotici: sono soprattutto il Clostridium difficile, gli Stafilococchi resistenti alla meticillina, gli Enterococchi resistenti alla vancomicina, la Klebsiella. E come se non bastasse ci sono virus e funghi che in ospedale diventano più aggressivi. 
Anche la Serratia si conta fra le infezioni ospedaliere; fuori vive nell’umido, nei bagni specialmente, la si può trovare nelle fughe fra le mattonelle e dà una colorazione rossa a quello che infetta, basta disinfettare con la candeggina e va via tutto. In ospedale è diverso, la si trova un po’ dappertutto, nel cibo ma anche nell’acqua, nel latte, nel sapone, persino nei dispenser dei disinfettanti. E anche la Serratia ha imparato a resistere agli antibiotici per via di certi geni che la proteggono dall’attacco delle sostanze chimiche. Provoca polmoniti (negli adulti specialmente) e gastroenteriti nei bambini, che sono difficilissime da curare. 
Il rosso viene da una sostanza con un nome che è tutto un programma: «prodigiosina», forse per via del miracolo di Bolsena. Siamo nel 1263, dall’ostia della messa esce un liquido rosso che colora l’altare e le dita del prete, sembra il sangue di Cristo e se ne convince persino il Papa (Urbano IV) che lo considera evento straordinario, divino. Ma Joanna Cullen di una Università della Virginia negli anni Novanta del secolo scorso prova a incubare ostie non consacrate con colture di Serratia marcescens, nel giro di tre giorni compaiono macchie rosse che ricordano in modo impressionante quelle del dipinto commissionato a Raffaello per celebrare il miracolo.