Corriere della Sera, 13 agosto 2018
I dubbi dei generali sul ritorno alla leva obbligatoria
«Tornare alla leva non ha senso», dicono al ministero della Difesa. «Se oggi dovessimo contare su giovani inesperti – spiegano da palazzo Baracchini – le Forze armate non potrebbero svolgere nessuna missione. Abbiamo bisogno di tecnici, di specialisti, di professionisti. I moderni sistemi d’arma usano una tecnologia così avanzata che richiede anni per farla apprendere. Ci vuole tempo e danaro».
Perciò, ritiene Vincenzo Camporini, ex capo di stato maggiore della Difesa, «non vale la pena, reclutare un giovane che porta la divisa per un anno e poi se ne va».
Una giovane recluta non saprebbe come maneggiare le armi moderne. E nemmeno saprebbe muoversi in un contesto straniero. «In ambito internazionale – dice il capo di stato maggiore della Difesa Claudio Graziano – le nostre Forze armate sono credibili e competitive». Proprio perché sono formate da professionisti specializzati che, prima di essere inviati, ad esempio, in Afghanistan, hanno studiato la cultura e la mentalità della gente in mezzo alla quale vanno a operare. Cosa che non si può pretendere da un ragazzo di leva.
All’Aeronautica, neanche quando la leva era in vigore ne facevano un grande uso pratico. Già allora erano necessarie conoscenze di cui i giovani erano digiuni. Non potevano essere impiegati come piloti, navigatori, meccanici, controllori di volo. «Gli facevamo fare gli autisti – racconta un generale –, li mettevamo a fare la guardia armata al cancello. Poi tornavano a casa e lamentavano di aver perso un anno senza fare niente».
Nemmeno fra i ranghi della Marina i giovani trovavano molto spazio. Invece l’Esercito riservava loro un impiego molto ampio. Per esempio, ricorda un generale che ha svolto missioni in Somalia, «i ragazzi di leva erano molto motivati ed era bello vedere che giovani provenienti da gruppi sociali diversi si ritrovavano insieme e diventavano amici. C’erano i diplomati e chi aveva la quinta elementare, i figli della borghesia e dei contadini. E lì in Somalia erano tutti una famiglia».
Ma oggi è impossibile riproporre il modello Somalia, o rivivere l’esperienza Libano come la condusse il generale Franco Angioni. «Catapultati nell’inferno del Libano – ricorda Angioni – male armati, al paragone coi marines americani e i parà francesi pieni di baldanza, i nostri ragazzi di leva facevano quasi tenerezza. Ma nei due anni di permanenza se la cavarono alla grande».
Certo, osservano all’Aeronautica, una forma di reclutamento potrebbe avere una giustificazione «se vogliamo dare ai giovani un senso di appartenenza alla patria, se vogliamo inculcare loro la consapevolezza che il lavoro da noi svolto serve a rendere sicuro il Paese: per esempio, noi compriamo gli F35, ma i giovani non sanno perché, andiamo in Afghanistan, ma i ragazzi neanche sanno dov’è, e allora se la leva potesse essere utile per offrire strumenti culturali, beh, parliamone».
Sì, però, dicono ai vertici dell’Esercito, dove li mettiamo? Molte caserme sono state cedute al demanio, altre le hanno vendute. Non è un piccolo problema, perché si calcola che ogni anno la leva potrebbe interessare, tra ragazzi e ragazze, circa 250 mila giovani.
Una soluzione ce l’avrebbe Domenico Rossi, generale, ex sottosegretario alla Difesa: «Limitare il reclutamento a 4 mesi, con lo scopo primario di insegnare ai giovani che non esistono solo diritti ma anche doveri. Poi, siccome non possiamo sprecare soldi, i 4 mesi dovrebbero avere uno scopo: quello di selezionare chi è intenzionato a entrare nelle Forze armate. Dico di più: estenderei il reclutamento ai giovani stranieri per insegnare loro la lingua e le nostre leggi da rispettare».