il Fatto Quotidiano, 13 agosto 2018
Le nomine di Lega e M5s, problemi e criteri
La vicenda Rai è ancora lontana dalla conclusione, dopo la bocciatura in Parlamento di Marcello Foa come presidente, ma è tempo di un primo bilancio sulle nomine fatte dal governo gialloverde. Una premessa: la Lega è in Parlamento dal 1987, governa le due Regioni più ricche d’Italia, Lombardia e Veneto, i Cinque Stelle sono alla seconda legislatura e alla prima esperienza di maggioranza. Esiste quindi da decenni un ceto di sottogoverno leghista a cui attingere per i consigli di amministrazione (vedi Flavio Nogara in Ferrovie dello Stato, per esempio), mentre il bacino pentastellato è praticamente vuoto. Col risultato che le scelte vengono fatte sperando che la sorte aiuti. A volte non funziona, vedi il caso di Luca Lanzalone messo alla presidenza dell’Acea a Roma e poi indagato per lo Stadio della Roma. Altre volte produce risultati altrimenti impossibili: Fabrizio Salini è diventato amministratore delegato della tv pubblica con qualche sms, un paio di colloqui informali e tanta fiducia.
I Cinque Stelle sembrano voler privilegiare la terzietà sull’appartenenza, non hanno molte persone di “area” tra cui pescare e quindi spingono sempre per nomi che considerano di garanzia, anche se si tratta di scelte basate su poco più del curriculum letto in rete. La Lega punta invece sull’usato sicuro e si muove con una maggiore determinazione che deriva dall’esperienza (a gestire le nomine sul fronte leghista c’è un veterano come il sottosegretario Giancarlo Giorgetti, per i Cinque Stelle il debuttante Stefano Buffagni, deputato).
Ovviamente ci sono le eccezioni a questa regola di massima. Sulla Cassa depositi e prestiti i Cinque Stelle hanno combattutto una battaglia che a molti è parsa incomprensibile per avere Fabrizio Palermo amministratore delegato della Cassa depositi e prestiti che gestisce i risparmi postali degli italiani. Palermo era il capo della finanza nella Cdp di targa renziana guidata da Claudio Costamagna e Fabio Gallia, per la sua ascesa faceva il tifo tutto un sistema di sottopotere romano che è quanto di più lontano esista dallo spirito dei Cinque Stelle. Luigi Di Maio e i suoi hanno fatto un punto di principio di femare la candidatura di Dario Scannapieco, vicepresidente della Banca europea degli investimenti, troppo tecnico, troppo europeo. Ma era un nome indipendente che avrebbe dato un segnale rassicurante a tutti, Quirinale incluso. L’effetto a catena della imposizione di Palermo è stato che il ministro dell’Economia Giovanni Tria ha ottenuto come direttore generale del Tesoro Alessandro Rivera, il funzionario che aveva gestito le crisi bancarie 2015-2017 nel modo tanto contestato sia da Lega che da M5S.
Tra gli altri episodi discutibili di questa stagione di nomine ne vanno segnalati un paio di altri. All’Arera, l’Autorità per l’energia, i rifiuti e l’ambiente, il governo Conte ha indicato Stefano Besseghini: competenza granitica, guida dal 2010 il Rse, una specie di centro di ricerca interno al Gse, il gestore del servizio elettrico che tra l’altro amministra gli incentivi alle rinnovabili. Sarà sicuramente meglio di Guido Bortoni che ha passato il suo mandato a dimostrarsi troppo indulgente coi soggetti vigilati e che prima di tornare a fare il dipendente dell’autorità che guidava ha ottenuto scatti di anzianità extra in una mossa non elegante. Peccato che Lega e Cinque Stelle abbiano anche messo in cda dell’Arera Stefano Saglia e Andrea Guerrini. Il privo è un ex deputato di An, molto competente ma che fino a ieri stava nel cda di Terna, una società vigilata dall’Arera. Idem Guerrini che tuttora risulta presidente dell’Asa, la società dei rifiuti del Comune di Livorno (pentastellato), quindi di un altro soggetto toccato dalle decisioni dell’Arera.
Ha sollevato qualche perplessità anche il nome di Benedetto Mineoall’Agenzia delle Dogane: l’ex funzionario di Equitalia è stato vicecapo di gabinetto del governatore della Sicilia Totò Cuffaro, simbola di una politica detestata tanto dalla Lega che dai Cinque Stelle. Ma a parte questo punto del curriculum non pare abbia altre criticità. La nomina di maggior peso tra le agenzie del Tesoro è quella al Fisco: lì è andato un generale della guardia di Finanza, Antonino Maggiore, pare scelto dai Cinque Stelle sulla base del suo approccio di concentrarsi sui grandi evasori. Il suo banco di prova sarà la gestione della “pace fiscale” – che, da quel poco che si sa, continua a sembrare un vero condono – ma almeno non risulta che il generale Maggiore abbia dato prova di fedeltà preliminare alla maggioranza come invece fece il suo predecessore, Ernesto Maria Ruffini, giovane e brillante avvocato ma anche frequentatore della Leopolda di Matteo Renzi.
A parte che sul nome di Foa, dove si è scaricata una tensione latente tutta politica tra Forza Italia e Lega, nessuna delle nomine di governo ha sollevato rivolte. Non ci sono veri impresentabili e questa è una novità. Ma è stata rispettata la tradizione su un altro punto: infinite discussioni su chi occupa le poltrone, neanche un minuto per indicare a questi manager che cosa l’azionista – cioè il governo, cioè lo Stato, cioè noi – si aspetta da loro e quindi su quali risultati sarà misurato il loro lavoro.
di Stefano Feltri e Giunio Panarelli