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 2018  agosto 13 Lunedì calendario

A causa dei dazi di Trump ricostruire la California sarà costosissimo

Sotto le ceneri dell’immenso braciere che da settimane consuma la California, cova un nemico imprevisto: la guerra tariffaria di Trump che ha caricato di dazi le importazioni dei materiali edili e che renderà proibitivo il costo della ricostruzione ai proprietari. Soltanto uno degli esempi dei danni che la follia protezionistica di questa presidenza sta provocando all’America che finge di proteggere. Due anni dopo la promessa di riportare fabbriche e lavoro in America, fatta in uno stabilimento di condizionatori d’aria che poi se ne sarebbe comunque andato oltre confine, il sogno del “ruggente ritorno” delle manifatture e delle ciminiere spente che riprendono a fumare resta illusorio, come illusorio è l’aumento del potere d’acquisto dei salari nonostante l’alta occupazione, inferiore all’inflazione in salita. L’aumento dei lavori manifatturieri è in linea con quello già segnato negli ultimi anni della ripresa sotto Barack Obama. Dai coltivatori di soia, destinata alla Cina, del Midwest che Washington ha promesso di sovvenzionare con 30 miliardi di dollari per compensarli delle perdite, alla straziante decisione della Harley- Davidson che sposterà parte della produzione della più americana delle moto facendo infuriare i “bikers” aggrappati alle selle del loro mito Usa, le conseguenze negative della guerra commerciale sono già visibili. I vantaggi restano una promessa. Il principio ispiratore centrale dell’operazione dazi si è dimostrato, finora, fallace. L’idea che i partner, o competitor, principali degli Stati Uniti avrebbero rapidamente piegato le ginocchia davanti ai dazi imposti a prodotti d’importazione e ceduto alla prepotenza trumpiana non si è materializzata. La blanda, marginale apertura fatta dal presidente della Commissione europa Juncker per rabbonire Trump e importare più soia – come se mai l’Ue potesse assorbirne la stessa quantità della Cina – è stata l’unica concessione apparente. Ma la decisione di imporre altri dazi punitivi alla Turchia, dunque negando al governo di Ankara il vantaggio momentaneo della svalutazione della lira, ha scosso come non accadeva dal collasso greco la stabilità finanziaria europea, come avverte Paul Krugman sul New York Times. L’elenco dei settori produttivi, delle associazioni industriali, delle piccole e grandi aziende agricole, che stanno disperatamente cercando di dissuadere Trump dall’escalation, si allunga ogni giorno, ma senza grande successo, perché nella storia delle fortune private del miliardario del Queens, nella sua resistibile ascesa alla fama e al potere politico manca la” cultura del commercio”, quella formazione al rischio di scambio che ha fatto la fortuna di nazioni, repubbliche e degli stessi Stati Uniti. Trump, come lo ha più volte descritto l’ex sindaco di New York Bloomberg, non è un” trader”, un mercante, ma uno speculatore, abile nelle spericolate operazioni immobiliari a credito. La sua fortuna sta nel comperare terreni, sponsorizzarli, farsi pagare sontuose royalties e, alla peggio, lasciare i finanziatori col sacco vuoto, aspettando qualche generoso investitore o acquirente straniero, spesso, come accaduto nella sua torre di Manhattan, venuto dal freddo. Spaventa, nel suo agire, l’assenza di un progetto di lungo respiro, di una strategia che vada oltre il gioco delle ripicche e dei dispetti o dei pigolii mattutini via tweet. Per restare aggrappato al consenso di quei 78 mila voti sparpagliati nei collegi elettorali del Midwest deindustrializzato che hanno fatto la differenza nella sua vittoria contro Hillary Clinton, Trump sta scuotendo le fondamenta di un mondo interconnesso, che ha fatto la fortuna commerciale, finanziaria e politica di quell’America che vuole “rendere grande di nuovo”, come se fino al 2016 fosse stata lillipuziana. Nella sua visione del mondo, ancorata a una cultura popolare americana da anni ’60, la altre potenze dovranno inesorabilmente accettare le condizioni che lui impone, ignorando che, se il cuore americano avesse un infarto nello spasmo trumpiano, altre forme di circolazione di beni, servizi e prodotti potrebbero bypassarlo. Già lo scoprono i petrolieri del Texas che vedono la domanda del loro greggio da parte della Cina scendere rapidamente. Mentre il governo a Washington ha dovuto assumere 200 nuovi funzionari in due settimane per smaltire la valanga di domande di esenzione tariffaria venute da industrie minacciate. Le migliaia di proprietari di case bruciate nel cratere californiano scopriranno che il prezzo della ricostruzione imposto da Trump supera del 20 per cento il costo previsto dalle assicurazioni, perché il 60 per cento del legname usato viene dal Canada e la gran parte delle ferramenta ordinarie è di fabbricazione messicana, ed è gravata da nuove imposte. E la pletora di piccoli commercianti o di grandi catene che vendono a prezzi scontati e con margini di profitto sottilissimi la merce importata alla clientela meno abbiente dovrà lottare per non perdere vendite e assorbire i rialzi. I meno abbienti pagheranno tutto più caro. Con la guerra dei dazi, Trump sta cercando di dimostrare, nel suo irresponsabile, arcaico provincialismo, che l’America non ha bisogno del mondo. Alla fine dell’avventura, potrebbe scoprire il contrario: che ormai neppure il mondo ha più bisogno dell’America.