Libero, 12 agosto 2018
Raro, incorruttibile, luccicante: perché l’oro è il modello ideale
Agosto, per un motivo o per l’altro, è tempo di burrasca sui mercati finanziari. La «madre di tutte le tempeste monetarie» è una «ricorrenza» economica di questi giorni: Bretton Woods e l’addio ai cambi fissi. Era infatti il 15 agosto 1971 quando il presidente Usa Richard Nixon (sì, proprio quello dello scandalo Watergate) annunciò la sospensione della convertibilità del dollaro in oro (il cosiddetto gold standard), perché il Tesoro americano non era più in grado di sostenere le richieste. Per la politica monetaria internazionale significava la fine dei cambi fissi e l’introduzione di quelli flessibili, con tutte le conseguenze del caso, a cominciare dalle «svalutazioni competitive» per cercare di rendere più conveniente le esportazioni di ciascun Paese (anche se si tratta di politiche di breve respiro per i pesanti effetti collaterali che si portano dietro, compreso l’impoverimento di chi ha monete deboli). Uno shock per l’economia mondiale che da allora non fu più la stessa. Che cosa era successo per mandare all’aria un sistema che era riuscito a garantire gli equilibri e gli scambi commerciali fin dal primo dopoguerra, senza eccessivi scompensi’ Detto in parole semplici, una cosa banalissima: l’aumento (eccessivo e andato fuori controllo) della spesa pubblica statunitense, anche per finanziare la guerra in Vietnam e il crescente indebitamento Usa che fecero aumentare le richieste di convertibilità del dollaro in oro. In base all’accordo, infatti, il sistema progettato a Bretton Woods (dove c’era stato anche lo zampino di Keynes) era un gold exchange standard, basato su rapporti di cambio fissi tra le valute, tutte agganciate al dollaro, il quale a sua volta era agganciato all’oro. E questo perché le caratteristiche principali di Bretton Woods erano due: l’obbligo, per ogni paese, di adottare una politica monetaria tesa a stabilizzare il tasso di cambio a un valore fisso rispetto al dollaro, che veniva così eletto a valuta principale, consentendo solo delle lievi oscillazioni delle altre valute. Il secondo punto chiave prevedeva di attenuare gli squilibri causati dai pagamenti internazionali, assegnato al Fondo monetario internazionale (Fmi). Il piano istituì infatti sia il Fmi sia la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (detta Banca mondiale). Queste istituzioni sarebbero diventate operative solo quando un numero sufficiente di paesi avesse ratificato l’accordo. Ciò si realizzò nel 1946. Nel 1947 fu poi firmato il Gatt (General agreement on tariffs and trade, accordo generale sulle tariffe e il commercio) che si affiancava all’Fmi ed alla Banca mondiale con il compito di liberalizzare il commercio internazionale. Negli anni sessanta aumentò il costo di produzione dell’oro, la valuta americana si deprezzò e i dollari provenienti dal deficit dei pagamenti divennero fonte di liquidità internazionale: la Federal Reserve avrebbe dovuto accrescere le sue riserve auree in misura proporzionale all’emissione di dollari, ma il cambio, essendo anacronistico, divenne insufficiente a remunerare la produzione. Lo standard aureo fu quindi sostituito da un non sistema di cambi flessibili. L’assenza di un sistema monetario è stata in seguito lievemente mitigata prima dall’introduzione nel 1979 del Sistema monetario europeo e, poi, dall’introduzione nel 1999 dell’euro. È da notare che le istituzioni create a Bretton Woods sopravvissero alla caduta del gold standard, pur rivedendo i propri obiettivi. Fmi e la Banca mondiale sono ancora oggi in attività, mentre il Gatt fu sostituito nel 1995 dal Wto – World trade organization di Ginevra (Organizzazione mondiale del commercio). Gli eventi di questi giorni dovrebbero metterci in guardia tutti sugli effetti degli eccessivi squilibri della spesa pubblica e sulle burrasche che possono scatenarsi sui mercati quando i conti pubblici vanno fuori controllo. riproduzione riservata COSTANZA CAVALLI nnnIl primo in Italia a capire come fare soldi con il proverbio «Il mattino ha l’oro in bocca» è stato Pietro Marchese, che nel 1900 aprì in Via Galata a Genova un pasticceria per confezionare dolci. Era appena tornato da un viaggio in Inghilterra e, folgorato dai wafer, decise di riprodurli in patria. Per qualche motivo i wafer non gli sono venuti, ma la sua pasticceria fece il botto lo stesso: per di più, in anni in cui gli italiani compravano dolci solo per le grandi occasioni e i biscotti confezionati nemmeno esistevano. Fu Gabriele D’Annunzio, cultore di frollini, a inventarsi il nome S.A.I.W.A (Società Accomandita Industria Wafer e Affini): divenne la prima industria dolciaria del nostro Paese e gli Oro Saiwa una tappa inzuppata in tutte le tazze di caffelatte delle famiglie italiane. Oro per il colore, perché appunto «il mattino ha l’oro in bocca», cioè a colazione. E forse, perché avere i biscotti in casa era segno di ricchezza. Che sia da mangiare o portato a un dito, l’oro ci piace da pazzi perché ci sembra di tenere tra le mani qualcosa di divino caduto sulla terra: è bello, ed è giallo e tiepido. È incorruttibile, non invecchia nel tempo e non viene eroso dalla ruggine. È imperturbabile, non reagisce a quasi nessun altro elemento chimico. E come se non bastasse, è raro: dall’antichità, alla corsa all’oro americana di metà Ottocento fino ai lingotti blindati nelle banche di Stato, si è sempre trattato di cercarlo e custodirlo. Della storia del metallo più amato del mondo, e del «sentimento ancestrale» che ci lega ad esso scrive Salvatore Rossi, Direttore Generale della Banca d’Italia, nel suo volumetto Oro (Il Mulino, pp.131, 12 euro). Rossi, custode delle circa 2.452 tonnellate di oro in lingotti e monete di cui la metà sono stipate nelle sacrestie di palazzo Koch a Roma e l’altra metà i caveau di mezzo mondo, analizza i seimila anni in cui l’uomo ha usato il metallo giallo, l’ha adorato o se ne è fatto vanto. E se la storia e l’arte luccicano tanto d’oro è perché, se è bello averlo, il sogno estremo dell’uomo sarebbe di esserlo, tanto che l’ultima frontiera della gastronomia è mangiarlo: ci aveva già pensato il maestro milanese Gualtiero Marchesi con il suo risotto (75 grammi di riso Carnaroli con una foglia d’oro al centro). Un piatto diventato così iconico che lo chef lo indossava come spilla, in una minuscola replica stilizzata. Ma anche lui non si era inventato nulla: a consumarlo c’erano già arrivati gli alchimisti medievali, i faraoni egizi e pure i dandy dell’età vittoriana. Ora, nell’era dei social, gli alimenti di lusso raccattano like a bizzeffe. E infatti le ali di pollo da 24 carati (il grado di purezza minimo, 24 o 23 carati, in cui il metallo è digeribile) spopolano: le tiene in menù il ristorante Ainsworth di New York, un piatto da 20 alette a 90 dollari, ma postarle su Instagram non ha prezzo. Mordendo il pollo l’oro rimane attaccato alle labbra e il selfie è servito. Dal sushi con alghe dorate a Tokyo, al Burj Al Arab di Dubai dove i cubetti di zucchero sono spolverati d’oro, il metallo passa attraverso il corpo e si riconosce anche all’uscita. L’artista Tobias Wong ha capitalizzato questa qualità con il suo lavoro «Pillole d’oro»: nel 2005 vendeva per 425 dollari 3 capsule in gelatina da 24 carati. Ingerite, si rivelavano una El Dorado intestinale che permetteva di fare una cacca visibilmente d’oro. Se però il godimento di mangiare oro o di cagarlo sta tutto nel distruggere il mito della sua inviolabilità, come accendere una sigaretta con una banconota da 500 euro, tutto il contrario fanno le Banche Centrali: Rossi scrive che il metallo giallo è tanto anacronistico quanto attuale. «Dimenticato dai dentisti» e con le criptovalute sulla corsia di sorpasso, non è affatto accantonato «da chi cerca un porto sicuro per i propri risparmi» perché l’aura sacrale che lo pervade «trascende ogni ragionamento economico» e lo rende tutt’ora il «bene-rifugio per eccellenza», perno delle economie e dei sistemi monetari. Ma chi dell’oro rivela la grandezza, e l’infinito potenziale, è Zio Paperone: il ricco per eccellenza, ben oltre il contadino Mazzarò (protagonista della novella di Giovanni Verga, talmente accumulatore e avido da morire al grido «Roba mia, vientene con me!»), Paperone nelle monete d’oro ci nuota: è tenuto a galla non dal possesso della roba, perché appena si possiede una cosa se ne vuole subito un’altra, ma è sostenuto dalla possibilità di possedere. Lo stesso motivo per cui ci teniamo la riserva aurea nazionale: mantiene la fiducia nel nostro sistema, mentre venderla vorrebbe dire lanciare «un segno di disperazione», dice Rossi, ai partner internazionali.