La Stampa, 12 agosto 2018
Le statue impertinenti di Roma
Muto come una statua di marmo. Andiamoci piano. A Roma le statue parlano, eccome. Da secoli insultano, ridicolizzano, denunciano, condannano: i potenti ma anche i vicini di casa, i senatori ma pure i fedifraghi, i ricconi ma anche gli straccioni. E non c’è solo il ben noto Pasquino, alla cui caustica effigie, domiciliata alle spalle di Piazza Navona, da secoli i romani affidano vituperi e rivelazioni piccanti. Nell’urbe ci sono almeno altre cinque figure immobili e ciarliere che hanno dato voce allo spirito ribelle e vendicativo dei suoi cittadini. Personaggi leggendari iscritti dal popolino all’esclusivo club della Congrega degli Arguti. A una sola donna calcarea vi è stato consentito l’accesso: madama Lugrezzia. La diciottenne Lucrezia d’Alagno era bellissima con i suoi capelli ramati, la figura esile e la carnagione nivea. Si racconta che Alfonso V d’Aragona, re di Napoli nel 1448, la vide per strada: ne fu folgorato e ne fece la sua favorita. Cinquecento cavalli e un lungo corteo di dame e gentiluomini accompagnarono la fanciulla quando sbarcò a Roma. Vicino all’abitazione dove morì, in Piazza Venezia, si erge tutt’ora un gigantesco busto di epoca romana. Era dedicato a Iside, dea della maternità e della fertilità, ma per gli eversivi e i discoli locali fu subito Lucrezia o Lugrezzia e divenne fertile di prese in giro e battute salaci. Nottetempo attaccavano al suo massiccio corpo biglietti con sberleffi ma anche con riflessioni sulla vita e sulla morte. Quando papa Gregorio XIV morente fece erigere un alto steccato per ridurre il frastuono molesto, la signora sentenziò: «La morte entra attraverso i cancelli». E quando, alla fine del Settecento, la Repubblica Romana stava tirando le cuoia, il popolo romano in rivolta appiccicò sulle spalle della matrona la scritta «Non ne posso veder più”. A partire dal 1500 a Roma le cosiddette «pasquinate», i biglietti irriverenti e anonimi, fiorirono numerosissimi a denunciare la corruzione e il nepotismo. Varie volte il potere reagì: ecclesiastici e nobili provarono con gran dispendio di energie e di mezzi a tacitare il fenomeno.
Adriano VI ordinò di gettare il troppo loquace Pasquino nel Tevere, ma poi ci ripensò. Benedetto XIII fece vigilare giorno e notte il busto, battezzato probabilmente con il nome di un barbiere dallo spirito abrasivo che aveva bottega sulla piazza. Qualcuno, beccato sul fatto mentre appiccicava bigliettini, finì sulla forca. Terminata l’epoca del potere temporale, Pasquino continuò a dire sporadicamente la sua persino nel Novecento: «Povera Roma mia de travertino / te sei vestita tutta de cartone / pe’ fatte rimirà da n’imbianchino / venuto da padrone!», tuonò in occasione dei preparativi per la visita di Hitler a Roma.
Gli uomini di marmo non solo chiacchieravano a tutto spiano ma in qualche caso parlavano anche tra loro. Marforio, gigantesca statua oggi ai musei capitolini, fu l’interlocutore preferito di Pasquino con cui discettava di questioni politiche e sociali. Così, quando arrivò a Roma Napoleone e fece man bassa di opere d’arte, il primo si rivolse al busto amico: “È vero che i francesi sono tutti ladri?”. La risposta di Pasquino non si fece attendere: “Tutti no, ma Bona Parte”. Entrambi dialogavano anche con Abate Luigi, collocato in Piazza Vidoni, sul muro della chiesa di Sant’Andrea della Valle e la cui immagine fu associata a quella di un sacrestano. Alla base della statua un’iscrizione recita: “Conquistai con Marforio e con Pasquino / nelle satire urbane eterna fama / ebbi offese, disgrazie e sepoltura / ma qui vita novella e alfin sicura”. In verità mica tanto “sicura”: il simulacro venne decapitato. Ma non perse la voce e protestò: “O tu che m’arubbasti la capoccia / vedi d’ariportalla immantinente / sinnò, vòi véde? come fusse gnente / me manneno ar Governo. E ciò me scoccia”. L’aura leggendaria avvolge pure gli altri due marmi parlanti, quello del Facchino e quello del Babuino. Un volto deturpato e sfregiato, quello che decorava una signorile dimora in via del Corso e che oggi si trova a Via Lata, a pochissima distanza. Il trasportatore di pesi era in realtà un acquarolo, ovvero sbarcava il lunario raccogliendo l’acqua dalle fontane pubbliche per poi rivenderla a modico prezzo. Ma il suo viso divenne un mitico bersaglio per i ragazzini romani: i papisti li avevano aizzati, non di un Facchino si sarebbe trattato bensì del detestato Martin Lutero.
E via con i selci, a testimonianza che i gentiluomini marmorei non sempre furono dalla parte del popolo, a volte erano oggetto del suo odio. La deformità era invece naturale, e non dovuta alle sassate, nel caso del Babbuino, con la doppia consonante tipicamente romanesca. Si tratta della raffigurazione di un essere brutto e deforme che ricorda a una scimmia. Dalla sua nicchia in Via Paolina, colpì così profondamente l’immaginario popolare che la strada prese, e tutt’ora conserva, il nome del quadrumane.
Secondo un’altra interpretazione, Babbuino deriverebbe invece dal termine babbione (dal latino bambalio), ovvero vecchio imbecille. La figura, realizzata per ornare una fontana, divenne dunque il catalizzatore dell’umore assai poco politically correct della «ggente», appagata dalla possibilità di prendersela con i più deboli e sfortunati. E le babuinate presero il posto delle pasquinate. Oggi marmo e carta sono caduti in disgrazia, la satira si è trasferita dalle piazze romane al web e la velenosità procede ad alta velocità sulla rete.