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 2018  agosto 12 Domenica calendario

Per Michael Krüger lo specchio sa più cose di noi

Einmal einfach, solo andata. Come dice il titolo, non c’è biglietto di ritorno per le poesie di Michael Krüger, che con questo recente volume di liriche si conferma intenso, forte poeta, con una discrezione che non è modestia bensì una perplessità pervasa di indifferenza, quasi a coprire un acuto e nascosto dolore divenuto abitudine. Con quel biglietto di sola andata non viaggia tanto l’autore quanto viaggiano le sue poesie, «diffidenti» – dice la prima, anzi il primo verso della raccolta – e inclini a tenere per sé l’essenziale ossia il nudo, immediato sentimento del poeta che non ha fatto a tempo a salire su quel treno o sul quel tram.
Già in una raccolta precedente, Di notte tra gli alberi, nota in Italia grazie alla splendida traduzione di Luigi Forte, la Storia accelerava lasciandosi alle proprie spalle l’uomo troppo lento, sorpassato da quel passo così veloce e capace solo di vedere, sempre più brevemente, le luci posteriori degli eventi, non solo di quelli contemporanei così rapidamente fuggitivi ma della Storia intera, che lo ha scaricato precipitandosi avanti e allontanandosi sempre più da lui.
Michael Krüger avverte con sereno sgomento la radicale trasformazione del mondo che sembra aver sconvolto la stessa fisionomia e natura dell’uomo, il quale si sente talora quasi un’altra specie rispetto a sé stesso e alla sua storia; anche a quella passata. Ora la Storia sembra divenire un’altra, un pianeta che ha altre leggi fisiche e altre forme, altre velocità e misure dello scorrere, dello stare o del regredire del tempo.
La poesia di Krüger coglie l’attimo o l’irrigidimento della transizione che l’homo sapiens sta vivendo, che stiamo vivendo, individui saliti su quella vettura di sola andata con un bagaglio ancora sostanzialmente tradizionale di sentimenti, cultura, pensieri, valori, vizi e virtù, ma un bagaglio che le scosse della vettura sballottano e sconquassano, facendo cadere dal finestrino tante cose di cui forse si ha ancora bisogno ma sempre più usurate; sentimenti e visioni del mondo fuori uso o quasi, come le cabine telefoniche a gettoni o l’Olivetti Lettera 22. E tuttavia ciò che resta indietro c’è, anche se fuori uso.
Nessun pathos nostalgico o tantomeno apocalittico nell’opera di Krüger, uomo che vive con acuto senso della realtà, attore protagonista che ama darsi l’aria di svagato spettatore. Non è solo un premiato scrittore, autore di romanzi incisivi – ad esempio Perché Pechino?, La fine del romanzo, lo splendido Ritorno di Himmelfarb, La violoncellista e di varie raccolte diverse, nonché di articoli e saggi che fanno di lui un punto di riferimento del dibattito culturale. Per molti anni e sino a pochi anni fa ha diretto genialmente la casa editrice Hanser, di gloriosa tradizione, portandola a un livello e a un ruolo di primo piano, centrale, vivacissimo e originale nella cultura tedesca ed europea. 
Sono stati, per me, anni di amicizia, di collaborazione e di gioiosa frequentazione. Tante iniziative, riviste, libri; la festa annuale a Monaco in cui s’incontravano Elias Canetti o Max Frisch, riunioni e serate dalle quali lui e io talvolta ci allontanavamo per un veloce tuffo nel vicino lago di Starnberg, quello in cui morì Ludwig, il folle re di Baviera.
Nelle sue poesie l’Io lirico non rivela nostalgie né recriminazioni, bensì piuttosto un’asciutta stanchezza. Le parole che costituiscono la sua vita sono finite in qualche lettera introvabile, i consueti dettagli quotidiani si sono appannati o alterati ma vengono vissuti senza pathos. La ruota delle cose gira veloce, ma la sua percezione è lenta e la poesia – una poesia di grande intensità e sobrietà che sfiora, senza averne l’aria, le cose minime e quelle essenziali, il tempo, l’amore, la solitudine – vive e balena in questo spazio tra il mondo e la sua percezione, tra la memoria e il suo svanire. Come perle non esibite, si incidono alla lettura metafore e immagini possenti, le canzoni dei morti che le mosche incidono ronzando sulla lastra della finestra o lo specchio che sa più cose su colui che vi si riflette di quanto ne sappia quest’ultimo ovvero l’autore. 
Anche gli illustri e dotti ospiti del Wissenschaftskolleg di Berlino – che abbiamo frequentato entrambi – sorridono forzatamente, come se presagissero che la vita dà meno di quanto le si chiede e che nella vacuità generale non resta alla fine quasi niente in mano. Non si finirebbe più di parafrasare le liriche di questa specie di breviario in cui la freddezza è l’espressione vera, pacata e senza sconti della lucida e scabra passione.