Corriere della Sera, 12 agosto 2018
Cesare De Michelis nel ricordo del fratello Marco
«Con Cesare era un piacere perfino litigare, ero legatissimo a lui. E noi due eravamo legatissimi a Gianni, che voleva sempre comandare e chiamavamo il paròn». Marco De Michelis, 73 anni, fratello minore di Cesare, l’editore scomparso venerdì, parla tra le lacrime dagli Stati Uniti. Docente alla Bocconi e per anni preside di Facoltà a Venezia, racconta «la mente brillantissima» del fratello e la «tempra da leone» con cui Cesare De Michelis per oltre 50 anni ha difeso la sua creatura, la casa editrice Marsilio.
Cinque fratelli De Michelis: Gianni, Cesare, Marco, Giorgio, Maria Ida, solidi legami e tante passioni comuni. Da cosa nasce questo vostro sodalizio?
«Abbiamo coltivato per tutta la vita la pluralità dei pareri, non eravamo mai in accordo su nulla. Cinque, coprivamo politicamente tutto l’arco dell’ideologia che va dai socialisti alla sinistra extraparlamentare. Mai stati della stessa opinione, tranne sul fatto che ci rispettavamo. Profonda stima e profondo rispetto. Siamo sempre stati fieri di Gianni e del suo incarico di ministro, anche se non condividevamo alcune scelte, ma l’abbiamo comunque sostenuto, sempre. Anche nella caduta».
Il ricordo più affettuoso di Cesare che le viene in mente?
«Ho una vita di ricordi. Parlare, litigare discutere con lui era un vero piacere. Uno spasso. Aveva un gusto del paradosso unico. Anche se era un uomo severo. Severo anche come fratello. Ci siamo amati tantissimo. Con lui ci si divertiva sempre. Il piacere di leggere, studiare, approfondire che lo caratterizzava, contagiava come un’onda tutti quelli che gli stavano intorno. Casa sua era sempre piena di gente, quanto amava le conversazioni e le discussioni... a volte urlava come un matto. Cesare era un famoso urlatore. Ma solo perché difendeva con passione le sue idee».
L’ultima volta che voi cinque fratelli siete stato tutti insieme?
«Da noi fratelli De Michelis c’è la tradizione che a Natale ci si ritrova tutti. Una tavolata enorme di fratelli, figli, nipoti. O a Venezia da Cesare o a Milano, dove ora vivono molti di noi. Andavamo da Cesare, c’erano sempre discussioni ferventi. Cesare difendeva con passione le sue idee, ma senza astio, con la bellezza del gusto per la retorica e il confronto. I bambini ascoltavano, si divertivano. C’era sempre da imparare».
Come ha reagito la famiglia alle vicende giudiziarie di Gianni De Michelis?
«Dopo la caduta politica di Gianni e in seguito a tutto quello che è accaduto, il più colpito è stato Cesare. C’è stato un vero e proprio accanimento contro la casa editrice Marsilio: per un anno ha avuto la Finanza negli uffici tutti i giorni. È stata molto dura. Ovviamente non hanno trovato nulla di irregolare».
Quando ha sentito Cesare l’ultima volta?
«Con Cesare ci sentivamo sempre, continuamente. Tante telefonate. Io vivo a Milano, ma tornavo spesso a Venezia solo per vederlo. L’ultima volta è stata qualche settimana fa, prima che lui partisse per Cortina, c’era l’inaugurazione della Biennale Architettura».
Cosa vi piaceva fare insieme?
«Io scappavo da lui ogni volta che potevo. Stare insieme tra fratelli era sempre un piacere. Così diversi, ma con un senso del rispetto reciproco fortissimo. Siamo sempre stati legatissimi, anche con Gianni, che era il maggiore e aveva un bel caratterino, voleva sempre comandare. Lo chiamavamo “il paròn”. Un amore, un amore grande».
Cosa conserva di più di suo fratello Cesare?
«Di lui conservo e ammiro l’amore per la sua creatura, la casa editrice Marsilio, che è l’unica nata negli anni ‘60 e ancora viva. L’ha difesa contro tutti, ha combattuto come un leone. E non è stato facile soprattutto dopo l’arresto di Gianni. Ho sempre ammirato questa tenacia e questa passione. E poi ammiravo la sua eleganza nel pensiero, che tutti gli riconoscevano. Era famoso per la profondità e l’acutezza del pensiero. Una mente brillantissima».
Da quanto tempo era ammalato Cesare?
«Cesare era ammalato da trent’anni. Gli avevano dato sei mesi di vita trent’anni fa, dopo la diagnosi del cancro al polmone. Il medico allora aveva parlato proprio con me. Lì ho capito tutta l’importanza e il dolore della parola perdita. Invece Cesare è rimasto sulla terra altri trent’anni, con un polmone solo. Tempra durissima. Vivere con un solo polmone è una grande battaglia quotidiana, tutti gli organi fanno più fatica, il cuore, i reni, il respiro. Ma lui è andato avanti. Ha avuto altri trent’anni di vita. E ha superato anche un altro tumore, recentemente. Fino all’ultimo giorno ha lavorato, pensato, progettato, realizzato, si è circondato di amici. Non ha rinunciato a impegni, eventi, cene. E a dire la sua, sempre. Anche la sera in cui è morto a Cortina, prima aveva cenato con amici».