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 2018  agosto 12 Domenica calendario

Cinquemila cause sul glifosato, la carica contro la Monsanto

È un affare che vale molto di più dei pur considerevoli 289 milioni di dollari che il colosso della Monsanto dovrà risarcire al giardiniere che si è ammalato di cancro. Perché la decisione del tribunale di San Francisco che ha trovato un legame tra quel tumore e l’uso del diserbante con glifosato che ha fatto la fortuna della multinazionale, probabilmente è solo la prima di una valanga di sentenze. Proprio un mese fa un altro giudice californiano aveva ritenute corroborate da «sufficienti elementi» le richieste di chi (si stima siano almeno cinquemila) potrebbe ottenere ragione da una corte.
La Monsanto intanto annuncia appello. E la tedesca Bayer, che lo scorso giugno ha acquisito il marchio americano per quasi 63 miliardi di dollari, precisa: «La decisione della giuria non cambia il fatto che più di 800 studi e valutazioni in tutto il mondo hanno confermato che il glifosato non è cancerogeno».
Battaglia non solo giudiziaria, ma anche scientifica. Introdotto nell’agricoltura statunitense negli anni Settanta, grazie a costi ridotti ed efficacia di risultati, è diventato il diserbante più diffuso al mondo. Provocando sempre maggiori perplessità, che sembrarono autorevolmente confermate nel 2015. Quando la Iarc, l’Agenzia per la ricerca sul cancro dell’Organizzazione mondiale della sanità, inserì il glifosato tra le sostanze «probabilmente cangerogene» per l’uomo.
Fine delle discussioni? Al contrario. Subito dopo si è per esempio pronunciata l’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (Efsa) che ha ritenuto «improbabile che sia genotossico o che rappresenti un rischio di indurre cancro per l’uomo». E negli anni seguenti dello stesso tenore sono state le conclusioni di altri organismi internazionali (come il gruppo Fao/Oms sui pesticidi oppure l’Echa, l’Agenzia europea per le sostanze chimiche). Chi ha ragione? A parte le sacrosante diversità di metodi d’indagine, a complicare le cose contribuiscono anche i sospetti che alcune ricerche siano, per così dire, «contaminate» dagli interessi delle multinazionali che finanzierebbero studi e analisi. Come emerse l’anno scorso dalle indiscrezioni su quelli che vennero ribattezzati «Monsanto papers».
L’Italia è sicuramente tra le nazioni più impegnate a limitare l’uso del glifosato. Lo scorso novembre era tra i nove stati europei che avrebbero voluto impedire la proroga dell’utilizzo fino al 2022. Troppo pochi per impedire il via libera. In ogni caso, dal 2016 sul nostro territorio non è possibile utilizzare il diserbante in aree sensibili, come parchi, scuole, aree giochi, campi sportivi. Oppure prima dei raccolti o in terreni in cui possono facilmente penetrare nel sottosuolo.
Posizione presa dai precedenti governi, che non viene sconfessata da quello in carica. Ieri il vicepremier Luigi Di Maio è intervenuto su Facebook: «La sentenza ci dà tristemente ragione. La tragica malattia è una conseguenza della tossicità del pesticida. Dobbiamo combattere l’invasione sul nostro mercato di questa sostanza».
«La strada intrapresa dal nostro Paese è quella giusta – osserva Gaetano Pascale, presidente uscente di Slow Food —. Anche se gli studi scientifici non sono univoci, è doveroso attenersi a quelli più prudenziali. Se negli Usa, dove non esiste il principio di precauzione, si arriva a una sentenza di condanna, vuole dire che tutte le nostre preoccupazioni erano purtroppo fondate». Concorda la Coldiretti: «L’Italia deve porsi all’avanguardia nelle politiche di sicurezza alimentare nella Ue e fare in modo che i controlli effettuati sui nostri prodotti vengano fatti anche su quelli stranieri che entrano nel nostro Paese».