il Fatto Quotidiano, 12 agosto 2018
Intervista ad Alberto Angela
La raccomandazione di chi lo segue non lascia incertezze: “Per favore, non gli chieda della storia del sex symbol, tutto quel chiacchiericcio in rete proprio non lo sopporta. Non lo tollera. Lui è un uomo di scienza, ama parlare della sua vita professionale. Molto”.
Con Alberto Angela qualunque (altro) argomento è una sorta di la per intonare la storia dell’universo mondo; quando risponde si ha la sensazione di tornare bambini, all’epoca in cui il maestro delle elementari era l’indiscusso depositario di ogni verità, l’unico in grado di rispondere alla fase bulimica dei “perché” (Gianni Rodari insegna), senza deludere le attese. In questi giorni sta girando le puntate della prossima stagione di Ulisse. “Scusi il ritardo, ma abbiamo girato tutta la notte, e fino all’alba. Bellissimo. In quelle ore scatta una magia strana, dal silenzio generale si possono quasi ascoltare i sussurri della storia”. Stanco? “Un po’ sì, ma sono altri i mestieri usuranti. E poi non possiamo girare di giorno quando i siti archeologici o i musei sono inevitabilmente impegnati con i visitatori abituali”.
Si trova a tu per tu con la Storia.
Questo è il bello, e per questo non parlo di stanchezza: quando i musei sono chiusi possiamo aprire le vetrine, “rompere” i normali divieti, magari girare tra i resti del Partenone o stare di fronte alla Gioconda senza quella perenne calca.
Tipo Ben Stiller e la “Notte al Museo”.
Quella è l’immagine internazionale, noi abbiamo iniziato prima, e a volte i direttori delle strutture ci hanno letteralmente consegnato le chiavi; poi la mattina, insieme alla troupe, ci ritroviamo al bar per cappuccino e cornetto.
A luglio le hanno assegnato il Premio Qualitel.
E vanno ringraziati gli spettatori.
Quello sempre.
No, davvero. In nessun’altra televisione straniera c’è un programma di divulgazione in prima serata; è una magia che mi stupisce da anni.
Ci mette pathos.
Ho superato i cinquant’anni eppure mi entusiasmo realmente sui luoghi, non c’è finzione scenica, anche perché sono e mi sento un ricercatore prestato alla televisione.
Politically correct.
No, cerco solo di concentrare l’attenzione verso i temi importanti, e lasciare da parte gli aspetti non centrali.
Ha dichiarato: “Un giorno tornerò a scavare”.
Perché il brivido di un sito archeologico non è paragonabile con nulla; lì c’è fascino, mistero, attesa; c’è la sensazione di ritrovare un percorso momentaneamente sepolto e tu sei il ricercatore in grado di ricollegare il passato al presente.
Ha scavato molto?
Dieci anni e nei luoghi può sperduti del pianeta.
A mani nude.
A volte è necessario.
Con l’idea?
Che la conoscenza è come il pane: va condivisa.
E lei la pagnotta la condivide sempre.
Il più possibile, poi ovvio ci sono momenti privati in cui non sei in grado di rispondere alle domande.
La fermano molto?
Capita.
E…
Ogni tanto arrivano domande complicate, in particolare dai bambini, e ripenso a quando anche io avevo la loro età…
Lei aveva suo padre.
Vero, ma ero comunque un tipo tosto.
Impegnativo.
In un periodo delle elementari sono finito undici volte all’ospedale; a un certo punto l’infermiera si è preoccupata: “Ma ti ho già visto un mese fa! Come è possibile”.
Discolo.
Molto attivo.
Per lei il “dolce far niente” non esiste.
Non so se mi piacerebbe, è uno stato molto lontano da me; sento sempre il bisogno di andare avanti, non mi fermo mai. La vita stessa è una possibilità incredibile di poter scoprire e senza limiti.
Vacanza?
Spesso in campagna, ma decidono i figli: vado dove vogliono loro.
Lei ne ha tre: secondo uno studio quello di mezzo è quasi sempre il geniale.
Davvero? Non lo so, sono differenti l’uno dall’altro, e c’è comunque una regola fondamentale: mai dirgli cosa si deve fare, meglio consigliargli cosa è preferibile evitare.
Senza…
Mai diventare amici.
Ai suoi figli pesa l’avere un genitore famoso?
Non credo, però questa domanda va posta a loro.
Da ragazzo ha mai subito il fascino di miti “pop”?
Sono cresciuto con parametri differenti…
Non c’erano dubbi.
(Sorride) Davvero! Ho passato l’adolescenza e l’infanzia all’estero, in particolare in Francia, poi ho seguito mio padre nei suoi viaggi.
Neanche Lucio Battisti.
Battisti sì, però da ragazzo parlavo meglio il francese dell’italiano e l’Italia è stata una scelta maturata da grande.
Cosa ne pensa delle opere italiane sottratte ed esposte nei grandi musei del mondo?
Parla del Louvre?
Anche.
Lì il discorso è molto semplice: se andiamo a studiare il passato, vigeva una regola molto basilare riguardo al bottino.
Quale?
Il bottino era la fase finale, il punto di conquista, e oramai c’è una sua giustificazione storica; però attenzione: parliamo di una fase ben specifica, superata la quale il bottino diventa crimine.
Quando?
Secondo me il confine giusto è la Rivoluzione Francese: ciò che è successo prima è andato, è acquisito, mentre il dopo non è più accettabile nel mondo occidentale.
Un caos di restituzioni.
L’Italia ha accettato di dire addio alla Stele di Axum.
Allora possiamo gridare: ridateci Giotto!
Il Louvre è pieno di opere sottratte da Napoleone con i fucili spianati; quando giro tra quelle sale e leggo il cartellino “Campagna d’Italia” avverto un moto di fastidio profondo: vuol dire che è stata razziata.
In Italia non siamo molto bravi a valorizzare ciò che ancora possediamo.
Basta vedere la classificazione Unesco legata ai siti: siamo un piccolo Paese, rispetto alla vastità del pianeta, eppure il nostro territorio è un concentrato di meraviglie, e non mi riferisco solo ai monumenti e ai musei.
Ma…
A eccellenze assolute nel mondo del cibo, della cucina, dei vestiti: anche la pizza napoletana è cultura. Le Langhe sono cultura. E noi dobbiamo salvaguardare il sistema, non solo la singola specificità.
Lei in politica.
Sono distante.
Ci ha mai pensato?
Ribadisco: sono distante.
Qualcuno le avrà proposto una candidatura…
No, e poi mi occupo solo di politica antica.
Nel 2002 lei è stato sequestrato.
Esperienza tosta. Giravamo nel delta del Niger, e per oltre 15 ore abbiamo vissuto da condannati a morte: tutti percossi, minacciati e poi derubati, dalle attrezzature, ai contanti, fino alle fedi nuziali e orologi. Sempre sul filo di una tortura psicologica.
Ore interminabili.
Eravamo nell’incertezza assoluta, in quei casi non puoi prevedere nulla, non ci sono parametri psicologici, non puoi aggrapparti alle tue certezze occidentali.
E poi?
Ci hanno abbandonati nel deserto, sono andati alle nostre macchine e le hanno devastate. Il giorno dopo sono tornati e ci hanno lasciati liberi.
Ha anche viaggiato con un cannibale.
Ragazzo dolcissimo.
Sempre cannibale è.
Con lui ho attraversato un fiume in Africa, io e lui.
Ma sapeva delle sue abitudini?
No, l’ho scoperto a metà del tragitto, quando per scambiare due chiacchiere gli ho chiesto in francese: “Come va?”. Lui per risposta ha sorriso, e in quel momento ha scoperto i suoi denti appuntiti, tipici dei cannibali.
Li levigano.
Sì, li affilano a triangolo, tipo quelli dello squalo. Comunque alla fine abbiamo stretto amicizia.
Senza alcun timore.
Bisogna difendere certe culture dai facili pregiudizi.
Va bene, ma gli ha chiesto se ha mai mangiato carne umana?
Questo no.
Da piccolo l’hanno mai presa in giro per il suo cognome?
Non mi è capitato, e spesso si sottovaluta la potenzialità del cognome per capire chi siamo e qual è stato il nostro tragitto: il cognome è una sorta di Dna.
Il suo?
È molto raro e proviene da una parte precisa del Piemonte, a sud di Ivrea; un giorno sono capitato da quelle parti e ho trovato una concentrazione inattesa di Angela, Angela, Angela.
Per le sue riprese ha cacciato Beyoncé dal Colosseo?
Questa storia fa sorridere, ma è un po’ esagerata.
Ne hanno parlato all’estero.
Per Beyoncé, mica per me.
Resta il dato.
Mettiamola così: per una volta la cultura ha battuto il pop per 1-0.
Lei cattolico?
Non rispondo.
Suo padre è agnostico.
Prossima domanda?
Ha mai il timore di perdere la memoria?
Al limite se ne accorgeranno solo gli altri, non io.