la Repubblica, 12 agosto 2018
Un ricordo di V.S. Naipaul, antipatico e arrogante
V.S. Naipaul, lo scrittore e premio Nobel 2001 che ci ha lasciati ieri, a 85 anni, sotto quelle iniziali, V e S, nascondeva due nomi difficili, Vidiadhar e Surajprasad. E lui era difficile almeno come i suoi nomi, che non a caso erano stati presto scorciati in V.S. Naipaul, salvo essere parzialmente recuperati come “Sir Vidia” quando nel 1990 la Regina Elisabetta insignì del titolo di Knight Bachelor lo scrittore, nato nel 1932 in un piccolo villaggio di Trinidad, allora colonia britannica e ora membro del Commonwealth.
Il nonno di Naipaul, di casta braminica ma povero, era uno dei tanti indiani emigrati a Trinidad dall’India per lavorare nelle piantagioni di canna da zucchero. Suo padre era giornalista per il giornale locale, il Trinidad Guardian. E V.S. cominciò la sua carriera di scrittore, quando si trasferì a Oxford con una borsa di studio, collaborando con i giornali inglesi.Il suo folgorante debutto come romanziere avvenne nel 1957, quando aveva venticinque anni, con Il massaggiatore mistico, che rivelava già il profondo disagio di Naipaul nei confronti della sua patria di adozione, la Trinidad del folklore locale e degli inglesi in colonia. Il successo si ripetè nel 1957 con il potente ritratto di una cultura e di un personaggio disegnato in Una casa per il signor Biswas nel 1964, poi con Mr Stone, nel 1963. Naipaul si era nel frattemppo radicato nel cuore della vecchia Inghilterra, a Salisbury, e andava scoprendo la vocazione di autore di reportage, di storico del presente, di scrittore che, come recita la motivazione del Nobel, “ha saputo unire una descrizione percettiva ad un esame accurato e incorruttibile, costringendoci a vedere la presenza di storie soppresse”.
Queste storie soppresse sono quelle dei popoli e delle culture che Naipaul ha visitato dagli anni ’70 in avanti, e che ha raccontato in libri come In uno stato libero, I coccodrilli di Yamoussoukro, fino a Semi magici, nel 2007. Storie che Naipaul ha proposto in una forma che mi ero permessa, in un articolo, di chiamare “autobiografia in forma di reportage”: perché era lui il metro aureo, il termine di paragone, lo scandaglio con cui indagava i popoli, i costumi, i riti che andava raccontando.
La definizione, miracolosamente, gli era piaciuta, e mi aveva consentito di portare a termine la mia seconda e difficilissima intervista con lui.Perché questo era il problema.Che V.S. Naipaul era un uomo difficile, anzi, per dirla tutta, antipatico. E non solo a tu per tu, nel rituale complesso e delicato delle interviste. L’antipatia, e spesso un trattamento unfair dei suoi soggetti, cominciava sulla pagina, con l’asprezza, la durezza, e, dall’alto della sua visione da perenne expat, da uomo senza patria, né indiano, né caraibico, né britannico, con la mancanza di rispetto che contraddistingueva il suo modo di leggere e commentare le culture altrui, in particolare l’Islam, le religioni africane, i “diversi”. Come, ad esempio, in La maschera dell’Africa(pubblicato da Adelphi come tutti i suoi testi) i pigmei, visitati frettolosamente e sbrigativamente raccontati.
Naipaul scriveva dal punto di vista di una superiorità braminica che si traduceva, nei suoi libri, in un’arrogante lontananza da chi usciva da un mondo culturale più povero, più estremo.E se qualcuno pensa che io stia trattando in modo sbrigativo o poco rispettoso un grande scrittore, dovrebbe leggere qualche recensione britannica, dove si elencano le cose sgradevoli di cui Naipaul era capace, le piccinerie dell’uomo.
“Anche se non gli mancheranno mai gli ammiratori, V.S. Naipaul può probabilmente vantarsi di essere l’uomo meno amato della letteratura britannica”, e di più, di quel vasto continente di libri che è la letteratura postcoloniale di lingua inglese.
Scrittori un tempo amici, come Paul Theroux (con cui si è registrato un celebre litigio quando l’autore di Mosquito Coast scoprì che Sir Vidia aveva rivenduto dei suoi libri che Theroux gli aveva affettuosamente dedicato), si sono impegnati a spiegare per iscritto perché l’uomo non sia simpatico. Come abbia trattato in maniera terribile le sue donne, dalla prima moglie Pat alla sua amante Marguerite. Come per sua stessa ammissione sia un puttaniere (nel senso letterale di frequentatore di prostitute). E Naipaul è riuscito a litigare per una ragione o per l’altra, ma soprattutto per i temi politici e ideologici che sottendono i suoi libri, con Salman Rushdie e Derek Walcott, con George Lamming e con Edward Said.
Avrebbe dovuto forse, Sir Visia, tacere le sue impressioni, le sue idee, le sue conclusioni? Certo che no. Ma è il modo che ancor offende molti suoi lettori: quella sua implacabile voglia di affermare a priori una diversità che vede come offensiva, gli stupori di fronte a realtà da cui un viaggiatore aspirante antropologo dovrebbe essere incuriosito a sapere di più. E se la curiosità in effetti con l’età è cresciuta, resta tuttavia nella memoria e sulla pagina il ricordo di una aggressività a priori, della palpabile voglia di Naipaul di avere vissuto un’altra storia, di essere stato, se possibile, bianco, ricco, britannico.
E stupisce, in questo senso, che V.S. abbia sentito il bisogno di far scrivere la sua “biografia autorizzata”, affidandola a un giovane studioso, Patrick French ( The World is What It Is), dandogli accesso ai documenti e alle testimonianze che aveva affidato (a caro prezzo) all’Università dell’Oklahoma, e mettendolo in grado di fare un ritratto che forse sarebbe stato meglio sfumare. Un estremo atto di onestà intellettuale o una forma di esibizionismo autolesionista?
In ogni caso colpisce, come è capitato a me nell’ultimo incontro, a Venezia, sentire il protagonista di tanti disamori e di tanti furori, ferito dall’età o forse dalla mancanza di energia, annunciare stancamente che ormai sente solo l’eco di se stesso, che non scriverà più. Detto da Naipaul, l’orgoglioso, arrogante Naipaul, era il segno del dubbio, la premonizione della fine.