Il Messaggero, 12 agosto 2018
E l’esiliato Freud incantò Londra
Sigmund Freud arrivò a Parigi, diretto a Londra, la mattina del 5 giugno 1938. Scese dall’Orient Express alla Gare de l’Est col cagnolino Lun, la moglie Marta, la figlia Anna, la fidata domestica Paula Fichtl e la pediatra Josefine Stross, che faceva le veci del medico di famiglia dottor Schur. Erano partiti dalla Westbahnof di Vienna due giorni prima, e ad aspettarli a Parigi trovarono il figlio Ernst, il nipote Harry, lo psicologo Ernest Jones, l’amica mecenate Maria Bonaparte, l’ambasciatore americano William Bullit, lo psicologo Ernst Jones e una muta di giornalisti e fotografi. Salirono in macchina diretti a Saint Cloud, dove passarono la giornata in casa della principessa Bonaparte, discendente di Napoleone e moglie del principe di Grecia. Freud, seduto su un divano nel terrazzo, si intrattenne a lungo con l’ambasciatore americano da anni suo paziente, col quale aveva in progetto una psicobiografia di Woodrow Wilson, presidente mediocre ai loro occhi perché in balia di un conflitto edipico irrisolto col padre, ministro presbiteriano, adorante. La sera stessa, ripartirono alla volta di Londra, dopo «dodici ore avvolti nell’amore, orgogliosi e ricchi sotto la protezione di Atena», come Freud scrisse a Marie Bonaparte che gli aveva regalato una statuetta della dea greca per la sua collezione.
IL ROGOIl fondatore della psicoanalisi aveva deciso di lasciare Vienna, la Berggasse e il suo passato solo dopo l’Anschluss, quando sua figlia era stata arrestata dalla Gestapo. Fu allora che l’ottantaduenne neurologo, malato di cancro alla mandibola, osteggiato dai nazisti che sin dal 1933 «contro la glorificazione della vita istintiva» avevano gettato al rogo i suoi libri, capì che era il momento di espatriare per morire in libertà. Grazie all’aiuto di Bullit e di Maria Bonaparte, riuscì a superare le pastoie burocratiche dell’esilio, controlli, certificati, tasse, vessazioni, mentre gli ebrei pativano violenze e umiliazioni indicibili. I Freud godettero della protezione da parte del commissario nazista, incaricato del loro espatrio. Questo Anton Sauerwald (leggetene la ricostruzione di David Cohen, The Escape of Sigmund Freud, 2010) era un chimico appassionato di bombe al plastico e di giardinaggio, il quale, dopo aver letto tutti i libri di quel neurologo famoso, si adoperò a suo rischio e pericolo per aiutarlo a vendere parte della biblioteca, a occultare i conti all’estero, a organizzare il trasloco dalla Berggasse, e persino a farlo operare a Londra, dal suo medico di fiducia, andandolo spesso a trovare di persona.
EUMENIDI
Anche a Londra, dove arrivarono la mattina del 6 giugno, Freud e le sue eumenidi vennero accolti da parenti e amici, e un nugolo di cronisti, tanto che a Victoria Station il treno dovette cambiare binario. «Una trionfante sensazione di liberazione», scriverà Freud nella sua prima lettera da Londra «si mescola con quella fortissima del cordoglio, poiché si ama ancora molto la prigione da cui si è stati liberati».
Freud era vecchio, stanco, malato, desideroso di vedere l’adorata cognata Minna Bernays che l’aveva preceduto di qualche mese, e però ancora lucidissimo. Attraversando la città, diretto verso la casa che Jones aveva preso in affitto per lui nei pressi di Regent’s Park, al 39 Elsworthy Road, riconobbe le strade, i palazzi, i monumenti come la colonna gotica d Charing Cross, eretta sul percorso del corteo funebre di Eleonora d’Aquitania verso Westminster, per ricordare la Chère reine, amata consorte di Enrico II. «Questi monumenti sono simboli della memoria, come i sintomi dell’isteria», osservò Freud nella sua Chronik. «Gli isterici e tutti i nevrotici si comportano come quei due Londinesi poco pratici non solo nel ricordare l’esperienza dolorosa del passato remoto, ma per esserne ancora affetti. Non possono sfuggire al passato e trascurano il presente a vantaggio del passato».
L’ACCOGLIENZA
E comunque al rifugiato ebreo più famoso del mondo i londinesi riservarono «la più amichevole delle accoglienze, nella beata, libera e magnanima Inghilterra», dove mai avrebbe pensato di venire a morire. Freud li ringraziò subito in un’intervista alla Bbc (rilasciata in inglese nella sua bella dizione gracchiante, la trovate su YouTube). Era così famoso che bastava indirizzare Freud Londra perché venisse sommerso da fiori, lettere, proposte di ritratti, inviti alla conversione da parte di «un’orda di cacciatori di autografi, di matti, di devoti che vogliono salvarmi l’anima» Oltre la posta, cominciarono le visite: Chaim Weitzmann, H.G.Wells, tre segretari della Royal Society in delegazione perché firmasse il libro d’onore, Maria Bonaparte venuta da Parigi con la promessa di aiutare a espatriare le quattro sorelle che Freud aveva lasciato a Vienna, con un piccolo capitale di 160 mila scellini, e che purtroppo scomparvero nei lager nazisti.
Il 19 luglio 1938 si presentò Stefan Zweig con un giovane surrealista catalano «suo fervido adepto». Era Salvador Dalí che volle mostrare a Freud la Metamorfosi di Narciso, e lo ritrasse in uno schizzo magnifico, esposto ora nella casa museo di Hampstead, una villetta su due piani in mattoni rossi con giardino al 20 Maresfield Gardens, dove Freud visse l’ultimo anno di vita, circondato dai mobili, dai libri e i dai cimeli della sua casa viennese. Ma la visita più interessante fu quella dei suoi editori inglesi, proprietari dell’Hogarth Press, che in quei mesi pubblicarono L’uomo Mosé e la religione monoteistica, l’ultimo scritto di Freud sul perché dell’antisemitismo, terminato nell’estate del 1938, con la tesi scandalosa dell’origine egiziana del monoteismo e di un Mosé egizio, assassinato dagli stessi ebrei. Leonard e Virginia Woolf vennero a prendere un tè a Maresfield Gardens. Freud, cerimoniosamente, offrì a Virginia un narciso.
«C’era qualcosa in lui che faceva pensare a un vulcano, non del tutto estinto, a qualcosa di cupo, di represso, di contenuto. Mi diede un’impressione di grande gentilezza e grande forza», scrisse Leonard Woolf. Sua moglie invece, la scrittrice dello stream of cosciousness, l’autrice di Gita al Faro, che fino ad allora aveva diffidato dell’invenzione tedesca dell’inconscio, fu colpita da un’altra osservazione. Quando confessò a Freud che gli inglesi si sentivano in colpa, e che forse non ci sarebbe stato un Hitler se le potenze alleate avessero perso la Grande guerra, Freud obiettò: «Niente affatto. Hitler e i nazisti sarebbero venuti lo stesso e sarebbe stato molto peggio se la Germania avesse vinto la guerra». Purtroppo il vecchio medico, ormai alla fine della vita, non ebbe modo di argomentare la sua idea.