Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2018
Storia della pausa pranzo
Mangiare è il gesto più elementare. Primo cartello: «Alla Girola siamo stanchi di mangiare nella gavetta». Secondo cartello: «Alla Girola mensa per i capi e 21 cani». La Girola è una impresa costruttrice di dighe. Nella fotografia in bianco e nero, scattata durante uno sciopero del 1973, il cartello è sorretto dai manifestanti. Da Memoriale, romanzo del 1962 di Paolo Volponi: «Io sono il capo reparto e mi chiamo Michele Grosset. Chi lavora alle frese è un operaio qualificato; chi lavora bene. Oggi alle due vedremo chi sa lavorare, gli altri dovranno impararlo da me. Adesso è mezzogiorno, la fabbrica smette. Alle due tornate qui, cinque minuti prima. Se volete, potere andare a mangiare alla mensa».
Cibarsi è un atto politico. A spiegarlo non sono, come accadeva più di mezzo secolo fa, i saggi pubblicati sui «Quaderni Piacentini» o su «Comunità». Lo racconta la mostra multimediale Pausa pranzo. Cibo, industria, lavoro nel ’900, ospitata alla Fondazione Dalmine fino al 21 dicembre. Nutrirsi – e nutrire – è un atto politico nel senso greco del termine. Nel senso della definizione della fisionomia della comunità, della formazione del diritto di cittadinanza reale e della costruzione dell’identità di chi vi appartiene. Nel caso specifico, la comunità dell’Occidente industriale e l’operaio.
La fabbrica del Novecento è stata – anche – un luogo sporco e buio, oppressivo e duro. Ma, con una delle feconde contraddizioni della modernità, è stata pure un luogo di emancipazione e di liberazione, di progresso e di conquiste. La radice fordista e taylorista si è ibridata con la radice fabiana e socialista in Inghilterra, con il nerbo conservatore e tecno-borghese in Germania e con la doppia nervatura organicistico-statalista e paternalistico-utopistica in Italia. Da questa ibridazione, e dalle sue differenti sfumature e declinazioni, è derivata nel secolo scorso la propensione dell’impresa ad aggiungere tasselli al mosaico economicistico-organizzativo, modificandolo profondamente e facendo della fabbrica qualcosa di differente rispetto al suo minimale profilo ottocentesco. Una evoluzione tutt’altro che lineare e armonica, ma fatta anche di impulsi violenti provocati dalle tre correnti esterne che, dalla realtà storica del tempo, hanno superato i cancelli aziendali inondando la vita dell’impresa: la sinistra di derivazione marxista, l’organicismo fascista e il cattolicesimo sociale.
La mostra, che è curata dalla Fondazione Isec e dalla Fondazione Dalmine con la collaborazione dell’Istituto Luce Cinecittà e il contributo della Fondazione Cariplo, è realizzata con l’utilizzo di diversi piani storico-analitici e narrativo-interpretativi: fotografie e oggetti, filmati storici e documenti di archivio raccontano che cosa succedeva all’operaio quando interrompeva il lavoro per, appunto, nutrirsi. I materiali riguardano, fra le altre, aziende come la Dalmine (oggi Tenaris) e la Ansaldo, la Fiat e la Olivetti, la Pirelli e la Montecatini, la Falck e il Cotonificio Crespi, la Marzotto e la Breda, la Barilla e la Zanussi, la Piaggio e la Montedison, la Sit Siemens e l’Alfa Romeo.
All’inizio gli operai tirano fuori dalla borsa il cibo portato da casa e mangiano a fianco dei macchinari. Poi, l’azienda mette a loro disposizione locali chiusi, prossimi ma non interni all’area della produzione, dove l’operaio consuma quel cibo freddo. Il terzo tempo è la predisposizione di ambienti rudemente confortevoli ed elementarmente attrezzati in cui gli operai possano scaldare i loro pasti, portati da casa. Il quarto tempo è rappresentato dalla creazione di vere e proprie mense – quelle reclamate appunto dai manifestanti della Girola nella fotografia in bianco e nero – in cui anche gli operai possano nutrirsi con il primo e il secondo, l’acqua e il vino forniti direttamente dall’azienda. Il passaggio socialmente più radicale nel percorso dell’operaio-cittadino dell’Occidente industriale è la fine della distinzione delle mense per gli operai e delle mense per gli impiegati, una distinzione di censo e di classe superata con le mense comuni alla fine degli anni Settanta.
Tutto questo è un percorso che dura un secolo. Ed è qualcosa di discontinuo e di non lineare, a seconda dalla cultura personale degli imprenditori nel nostro capitalismo privato e a seconda della capacità dei dirigenti del nostro capitalismo pubblico di fare diventare prassi aziendale le culture – politiche, in particolare cattoliche e socialiste – del loro tempo.
La foto più antica raccolta dai curatori della mostra è del 1890. Al porto di Genova il cibo viene trasportato con i gozzi agli operai dei cantieri navali della Ansaldo. I primi sostanziosi nuclei fotografici sono degli anni Trenta. La maggioranza delle immagini riguarda l’Italia che, dal Boom Economico, arriva a lambire gli anni Ottanta, quando la fabbrica – e con essa l’operaio – inizia a perdere centralità. Molte delle foto esposte alla Fondazione Dalmine sono scattate da anonimi. Molte sono firmate, fra gli altri, da Uliano Lucas (alla Zanussi), Ugo Mulas (alla Montedison) e Bruno Stefani (alla Dalmine).
Le foto sono soltanto una parte dell’excursus visivo allestito alla Fondazione Dalmine. Perché la costruzione progressiva del cibarsi in azienda per tutti non è soltanto una scelta calata dall’alto o favorita dalle pressioni dal basso. È anche un pezzo del processo industriale delle imprese. Basti pensare ai documenti dei Laboratori Centrali Dalmine che, con la relazione 44/18 del 30 maggio 1944, analizzano i «grassi prelevati alla mensa aziendale» e «gli aspetti dei campioni e i caratteri organolettici», al pari delle relazioni sulla composizione dell’acciaio di una colata.
All’interno della costruzione dell’identità di impresa, il tema della mensa compare in due specifici filoni: l’architettura e i film aziendali. Fra le architetture, non c’è soltanto la mensa progettata a Ivrea per la Olivetti di Adriano Olivetti da Ignazio Gardella. Ci sono anche, a Milano, i lavori di Giò Ponti nella sede della Montecatini in Via Turati, la mensa per impiegati di Giulio Minoletti per la Pirelli alla Bicocca e quella di Gigiotto Zanini per la Carlo Erba di Via Imbonati.
Nei film aziendali – la particolare forma di corporate image che si fa corporate identity ora con stile elementare ora con stile più raffinato – compare anche il cibo: succede nel caso dell’Ansaldo e della Fiat, della Marzotto e della Olivetti. Tutte impegnate, con diverse impostazioni, a costruire una serie di servizi – dalle colonie alle case per i dipendenti – di cui la mensa è l’esempio più umile e misconosciuto ma, per la dimensione intima e profonda del mangiare, il più “politico” e perfino il più umano.
Italo Calvino, nel racconto dei primi anni Cinquanta La collana della regina, descrive così i due operai Pietro e Tommaso, una amicizia scossa dall’idea del matrimonio fra i loro figli: «A Tommaso, al vedere lì Pietro pasciuto, spensierato – tale almeno gli pareva – mentre lui mandava giù forchettate quasi impalpabili di cavolfiore bollito, venne una tale rabbia che il piatto d’alluminio prese a tremare sullo zinco del tavolo come se ci fossero gli spiriti. Pietro scrollò le spalle e andò via. Ormai anche gli ultimi operai lasciavano in fretta la mensa, e Tommaso, con le labbra unte attaccate a una bottiglietta di gazosa piena di vino corse via anche lui».