Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2018
I predoni del brand Salgari
Che brutta commedia all’italiana, la storia della fortuna di Emilio Salgari nel ventennio che coincide con quello del Fascismo. La ricostruisce in ogni minimo dettaglio, con pazienza amorevole, l’italianista inglese Ann Lawson Lucas, già docente universitaria e traduttrice di Pinocchio, nel secondo dei quattro volumi di volumi di un’opera poderosa, che mette a frutto ricerche capillari avviate sin dagli anni ’60. Indagini rese particolarmente ardue dalle colorite bugie autobiografiche dispensate dallo stesso autore (si spacciava per capitano di lungo corso e vantava avventurose navigazioni nei mari d’Oriente, pur non essendosi spinto più in là di Brindisi), da una produzione torrenziale, da un ginepraio di edizioni presso editori diversi, ivi comprese quelle apparse sotto pseudonimo per sfuggire alle clausole di esclusiva. Senza contare la difficoltà di avere dati certi su tirature e vendite.
Il volume ora in libreria copre gli anni dal 1916 al 1943, si muove a tutto campo tra cultura, editoria e politica, e getta getta una luce pressoché definitiva su un malcostume editoriale e una strumentalizzazione di regime che oscillano tra il grottesco, il cinismo e la più sfacciata impudenza («ridevole», la definì Gramsci). Una storia nemmeno sorprendente, come tante altre: perfettamente italiana. Già allora la politica era diventata un teatrino fatto di affermazioni assurde e schiamazzi scomposti e applauditissimi.
Accade che, morto tragicamente Salgari nel 1911, dopo la pausa degli anni di guerra, quando c’era altro cui pensare, le ristampe dei titoli più fortunati ricominciano a correre, e i figli, Nadir prima, Omar poi, arrivati alla maggiore età mettono a frutto l’eredità paterna creando una piccola industria del falso con la complicità degli editori (escluso il solo Vallardi) e l’aiuto di ghost-writers: in parte amici di famiglia, come il professor Renzo Chiosso, in parte estimatori ed epigoni, come Luigi Motta e più tardi Giovanni Bertinetti (per ben quindici titoli). Troppo forte è il brand Salgari per non approfittarne. Non saranno certo i giovani lettori a sottilizzare. Chiedono soltanto di continuare a “farsi” con il loro amatissimo autore, sordi alle deprecazioni di genitori e insegnanti.
L’escamotage iniziale è semplice: gli eredi offrono all’ultimo e più autorevole degli editori del padre, Bemporad, ben 36 “trame” che dicono di aver ritrovato tra le carte dello scrittore. Basta affidarle a dei bravi compilatori affinché le sviluppino. La florida contraffazione prosegue indisturbata negli anni: dal 1921 al 1960 saranno ben quaranta i romanzi attribuiti in tutto o in parte al defunto, ma nessuno se ne stupisce. A lui si può far tutto, in vita e in morte.
Le opere “postume” escono con la firma del solo Salgari, o al massimo firmate a quattro mani con Luigi Motta, «che gli fu intimo». Non solo: Chiosso confeziona un volume autobiografico, Le mie memorie, su cui Bemporad esita, ma non Mondadori, che lo pubblica nel 1928. Lì sono riprese e amplificate le frottole già propalate dall’Emilio e dai figli: le avventure nei mari malesi, l’incontro con il vero Sandokan, l’idillio con miss Eva Stevenson che poi spira tra le sue braccia... La leggenda del Salgari viaggiatore che raccontava esperienze vissute sopravviverà a lungo, e sarà raccolta persino da Luigi Russo (in un volume del 1923 dedicato ai narratori italiani) o dalla voce dell’Enciclopedia italianaredatta da Guido Mazzoni nel 1936.
L’anno-chiave è il 1928, quando Antonio Beltramelli (1879-1930), romagnolo, già biografo di Mussolini e amico di Mondadori, poi accademico d’Italia, segretario generale del sindacato autori, scrittori, musicisti, pittori, scultori, vara un “settimanale di battaglia”, Il Raduno, nel cui comitato di condirezione siede anche Bontempelli. Beltramelli, già autore Bemporad, per puri motivi di astio personale verso il suo editore scatena il periodico in una serie di denunce sempre più aggressive e deliranti, già tinte di antisemitismo. La premessa è che Salgari è «uno dei più importanti artisti italiani», perché nessuno, nemmeno D’Annunzio, «ha lasciato un solco così profondo nell’anima nazionale». Ha destato una gioventù che senza di lui sarebbe rimasta «schiava e tremebonda». Era lui il nostro «precettore vero, il nostro salvatore, il contravveleno». Salgari aveva addirittura preparato a combattere i soldati italiani nel segno di Sandokan e Yanez. Egli è dunque «il primo, il tacito e sicuro alleato di Benito Mussolini», «umile forgiatore di coscienze, precursore sepolto»: il prefascista per eccellenza.
Eppure quel grande è morto «suicida per miseria», gli editori strozzini (leggi Bemporad, «vampiro dall’avidità inumana» che ha guadagnato milioni a fronte di compensi irrisori) sono stati i suoi «effettivi assassini». Senza uno straccio di prova, si chiede a gran voce di espropriare gli editori e fare un’edizione nazionale delle Opere a beneficio degli eredi e dell’Opera Balilla. Aderiscono Bottai, ministro delle Corporazioni, e Fedele, della Pubblica Istruzione.
Come spesso accade, chi desidera acquistare benemerenze con il regime si dimostra più realista del re. Il dibattito approda alla Camera, viene istituita una Commissione, che ristabilisce rapidamente la verità: Bemporad si è comportato correttamente dal punto di vista contrattuale, il suicidio non si deve al cattivo trattamento economico. E poi l’onore dell’edizione nazionale è un po’ troppo. Margherita Sarfatti, biografa e amante di Mussolini, scrive un po’ irritata che lo scrittore non è affatto un precursore: è anzi un antifascista, perché esalta la rivolta, l’indisciplina, la disobbedienza alle autorità.
Il caso si spegne, Il Raduno a luglio collassa miseramente, ma il clamore che il caso ha suscitato si rivela una straordinaria occasione promozionale. Gli editori, Sonzogno in testa, sono lesti a moltiplicare le ristampe e la pubblicazione di nuovi titoli rigorosamente falsi, ben quindici in tre anni. L’annessione al fascismo continua imperterrita. Lucio d’Ambra, potente accademico d’Italia, definisce Salgari «il profeta di quella vita fascista degli Italiani nuovi che Mussolini doveva definire con un avverbio: “Vivere pericolosamente”…Quindi Emilio Salgari è uomo d’oggi». Propone lapidi e monumenti, gli vuole intitolare una nave da guerra e attribuire il titolo di Capitano di lungo corso alla memoria.
L’ultima fiammata propagandistica va dal 1938 al 1941. È tutta in chiave anti-inglese, e utilizza il cinema per incitare alle virtù guerriere. Mentre Omar continua a inventare allegramente in Mio padre Salgari (1938, ristampato ancora nel 1965), Massimo Girotti interpreta Tremal-Naik, Clara Calamai veste i panni di Ada, Luigi Pavese è un Sandokan un po’ anzianotto e corpulento, ma che importa. È il 1941, escono tre pellicole esagitate. Il vecchio “poeta dell’ardimento” è costretto a ruggire a Cinecittà. Truffatori e truffati, complici felici, corrono insieme verso il baratro.