Il Sole 24 Ore, 12 agosto 2018
Tutti gli States visti dal camper di Steinbeck
A causa delle battute degli amici, perplessi di fronte a quello strano mezzo di trasporto, John Steinbeck aveva soprannominato «Rocinante» il camper acquistato per partire «alla ricerca dell’America» nel settembre del 1960, con il cane Charley, un barbone ammalato di prostatite. «Rocinante», ovvero «Ronzinante», è riapparso dal regno della ruggine e della polvere dopo oltre mezzo secolo; e grazie al lavoro gratuito di un carrozziere italo-americano, Gene Cochetti, è tornato come nuovo per finire al National Steinbeck Center di Salinas, la città californiana dove lo scrittore è nato ed è stato sepolto.
I musei dedicati agli scrittori sono luoghi solitamente concettuali e poco emozionanti. Un po’ vuoti e privi di reperti significativi a parte vecchie edizioni originali, qualche foto e al massimo una macchina da scrivere. Lo Steinbeck Center può vantare un pezzo interessante, non solo per bibliofili. «Ronzinante» appartiene a una tipologia di camper rara, soprattutto in Italia: la cellula abitativa è montata sul cassone del pick-up - un Ford color verde bosco – e isolata rispetto alla cabina di guida. Gli interni sono di legno e non mancano i comfort, anche secondo standard attuali: wc chimico, cucina con quattro fuochi, letto doppio, stufa e frigorifero, un serbatoio dell’acqua di trenta galloni, circa novanta litri. Il mondo dei camper, ancora agli albori, era già moderno. Mancano solo i pannelli solari. Va detto che lo scrittore rimpiangeva i tempi in cui si muoveva su un furgone dove buttava un materasso per stare accanto agli umili e ascoltare le loro storie da trasformare in libri.
Ma a quasi sessanta anni un pick-up camperizzato, che gli ricordava la barca, poteva andare benissimo per attraversare l’America – un continente totalmente cambiato dopo la guerra – e riprendere contatto con la realtà. Perdere contatto con la realtà per uno scrittore come lui era un delitto. Viaggi con Charley, ormai diventato un classico, è il frutto di quell’esperienza. Nello stesso anno dell’uscita, il 1962, Steinbeck ha vinto il Nobel, proprio quando molti lo davano per finito. La traduzione italiana è di Luciano Biancardi e certe tirate contro il progresso che avanzava a velocità sempre maggiore non devono essergli dispiaciute.
Steinbeck parte poco dopo un uragano a Sag Island, dopo aver rischiato di perdere la barca. Era un uomo grande e grosso, con sangue tedesco e irlandese; burbero di temperamento. Il cane Charley si rivelerà utile per rompere il ghiaccio con la gente incontrata per strada. Sarà fondamentale per esempio per entrare in contatto con un clan familiare di franco-canadesi, accampati nel Maine per la raccolta di patate. Le pagine che dedica a questo incontro sono tra le più belle. Calde e brucianti quanto il cognac bevuto in compagnia di quel gruppo, la sera prima di ripartire.
Non tutte le pagine sono altrettanto ispirate – il nome donchisciottesco del camper crea aspettative picaresche non mantenute -, ma chi non molla Steinbeck per strada viene ampiamente ripagato. La parte più forte arriva verso la fine ed è quella che racconta le manifestazioni di mamme scatenate contro l’integrazione razziale nelle scuole a New Orleans. Steinbeck assiste all’oscena messa in scena delle giovani americane che urlano sconcezze contro una inerme bambina nera, vestita di bianco e scortata fin dentro alla scuola da uomini dell’Fbi. Norman Rockwell ha reso l’episodio, che si ripeteva ogni mattina, in una illustrazione molto toccante, diciamo pure straziante, intitolata The problem we all live with. La piccola cammina circondata dagli agenti in borghese. Solo un pomodoro schiantato contro il muro rappresenta la crudeltà della situazione. Le mamme, che secondo Steinbeck non sono mamme e neanche donne, non si vedono.
Quella bambina, Ruby Bridges, oggi attivista dei diritti, ha ricordato l’episodio in modo non dico consolatorio, ma quantomeno ironico e lieve. Vedendo tutte quelle persone che urlavano e lanciavano oggetti, pensava fosse mardi gras, il giorno del carnevale. Se un classico non smette mai di dire quello che ha da dire, Viaggi con Charley è un classico nei giorni in cui si sentono proposte di scuole riservate ai bambini bianchi in Italia. Oggi pensare a mamme che se la prendono con una bambina – l’unica mandata dai genitori a sfidare il razzismo – significa pensare a qualcosa di assurdo e atavico. Ma tra cinquanta anni quali comportamenti di oggi ci sembreranno bestiali e vili?
Anche se portava con sé carte geografiche, Steinbeck apparteneva alla categoria dei «nati persi», coloro che non amano sapere sempre dove si trovano. Anticipando la marginalità erratica di William Least Heat Moon e Strade blu, altro letterato camperista, evita le autostrade. Le considera nastri di asfalto sterili come il cibo che viene servito lungo il percorso in un continente a tratti irriconoscibile per chi lo ha vissuto ai tempi dei convogli a cavallo. Se un giorno esisterà una autostrada che attraversa l’America da un capo all’altro, scrive Steinbeck, si potrà percorrerla senza vedere nulla. E saranno non-viaggi in non-luoghi. E dire che proprio questa incarnazione del progresso – simboleggiata dai distributori automatici di generi vari e dal cibo industriale – rappresenta per molti di noi l’identità dell’America moderna.
Ogni partenza si porta con sé tanti propositi irrealizzabili. Steinbeck carica sul camper la macchina da scrivere e dei libri. Non leggerà né scriverà, almeno stando a quanto racconta, ma il viaggio non va preso troppo alla lettera. Come ha scoperto il giornalista Bill Steigerwald, ripercorrendo le stesse strade e confrontando date e incontri, Steinbeck non sempre ha raccontato quello che ha vissuto e si è preso molte libertà. Le visite della moglie, l’attrice Elaine Anderson, sarebbero state più numerose di quelle citate e lo stesso vale per le notti passate in hotel invece che su «Ronzinante». Forse questo spiega qualche calo di tensione narrativa.
Comunque il racconto di viaggio, se mi si passa l’etichetta riduttiva, offre molte possibilità, compresa quella di inventare. Steinbeck ha dimostrato di avere ancora dentro di sé stimoli per rimettersi in gioco. Per non sentirsi arrivato parte e si fa «oltre diecimila miglia, oltre trentaquattro stati», in tre mesi. I viaggi, spiega Steinbeck, a volte iniziano molto prima della partenza e finiscono molto prima dell’arrivo. Le pagine ambientate a New Orleans sono talmente forti che in pratica concludono il viaggio. Il periplo attraverso gli Stati Uniti – da Sag Island fino a Seattle passando per Chicago, poi giù in California e Louisiana per risalire verso Nord – si esaurisce a New Orleans, davanti a una scuola. Quando arriva a New York Steinbeck si perde e deve chiedere la via di casa. Come uno straniero.